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Roberto bartali.it

News Agosto 2001

27 Agosto 2001

Sequestro Moro, muore Maccari il «quarto uomo» Lunedì 27 Agosto 2001 L'ex Br Morucci: l'ha ucciso il carcere, dopo vent'anni è accanimento Vincenzo Tessandori ROMA Quanti segreti conosceva il «quarto uomo»? Sapeva tutto o soltanto uno spicchio di verità su quel mistero italiano chiamato «l'affaire Moro»? Con quel nome da pittore, quel modo di fare un po' introverso, riservato, pudico, quasi timido, da comparsa piuttosto che da protagonista, Germano Maccari, il compagno Gulliver, pareva uno fuori posto nella nebulosa del terrorismo, nato e cresciuto a Centocelle. Eppure, nelle Brigate rosse lo consideravano uno di prima scelta. Era stato lui a trovare la cassa nella quale le bierre avevano cacciato il presidente della Democrazia cristiana, quello che aveva fatto da carceriere, in via Montalcini a Roma, che aveva provveduto a cambiare l'aria nella cella, che insieme ad altri aveva interrogato Moro, ne aveva raccolto gli umori, le parole, le ultime volontà. Quello che gli aveva sparato. Ora lui era a Rebibbia per saldare, come si dice, il suo debito con la società, che assommava a 23 anni, sentenza definitiva dopo aver subìto la prima condanna a 30. È morto l'altra notte, d'infarto. Pare. Per 15 anni le tessere di quell'imbroglio maledetto che si rivelò il sequestro e l'assassinio di Moro, vennero pazientemente riordinate, ma per tutto quel tempo il nome di Maccari non era emerso, anche se sulla linea dell'orizzonte s'intuiva il profilo di qualcuno: di colui che aveva provveduto anche all'aspetto logistico dell'operazione, quello che aveva fatto mettere le inferriate alle finestra del «carcere del popolo», quello che qualcuno ricordava superficialmente come lo scialbo «ingegner Altobelli», titolare dell'appartamento nel quale, fino al giorno dell'esecuzione, avevano tenuto Moro. Si alternavano in quattro, in quella casa medio-borghese: Maria Laura Braghetti, Mario Moretti, Prospero Gallinari e quel fantasma, Germano, a cui toccava di dormire su «un divano», ricorda la brigatista ne «Il prigioniero», che un tempo era stata anche la sua fidanzata ma che aveva avuto la ventura, in quella casa, di dividere il letto con Moretti, chiamato «il capo», chissà se a ragione o a torto. Maccari era uno zelante, disponibile, ma non era apparso granché entusiasta dell'idea del rapimento e i compagni, ricorda Braghetti, «ci avevano messo un bel po' a convincerlo. Per tutta la durata del sequestro si tenne più defilato possibile e subito dopo uscì dalle Brigate rosse e non ne volle più sapere». D'accordo, come ha detto qualcuno, «la coerenza è la maledizione delle menti meschine», ma cambiare idea non basta per gettarsi alle spalle il passato. Al primo processo Moro ne seguì un secondo, eppoi ancora altri e al termine di ognuno il frutto era uno spicchio di verità, con i nomi dei protagonisti e delle comparse allineati e trascritti in tanti ordini di cattura. Tutti o quasi, poco alla volta, ma l'«ingnegner Altobelli» rimaneva sempre il signor nessuno. Fino al tardo pomeriggio del 22 ottobre 1993, quando una del gruppo, Adriana Faranda, la compagna Alexandra, rivelò il vero nome di quell'ingegnere col nome da calciatore. Era un venerdì. «Si chiama Germano Maccari». Anche lui era già finito in carcere, quando gli dissero che una brigatista lo accusava del sequestro e dell'omicidio di Moro, rispose secco: «Non ho nulla a che vedere con questa storia e non ho altro da aggiungere». Passarono quasi tre anni, poi, il 19 giugno '96, durante il processo «Moro Quinquies», decise che era arrivato il tempo di parlare. «È vero, c'ero anche io quel giorno in via Fani». La confessione non ebbe toni epici: lui raccontò a voce bassa, come se fosse stanco di tenersi dentro quel segreto. Se gli era venuto il dubbio che qualcuno avesse manovrato l'organizzazione, non lo fece capire. Sì, ammise, lui c'era quando fu stabilito di «eliminare l'ostaggio»: non era d'accordo, ma le Brigate rosse non erano un'organizzazione nella quale le decisioni venissero prese a maggioranza. C'era anche nel momento in cui una raffica di mitraglietta uccise Moro. E c'era in via Caetani, dove le bierre abbandonarono il corpo. Al racconto, alla confessione, seguì il primo verdetto: 30 anni, ridotti dall'Assise di Appello dell'Aquila a 26 eppoi, il 14 novembre 2000, dalla Cassazione che aveva individuato un difetto nella sentenza d'Assise, a 23. freccia rossa che punta in alto

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