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Roberto bartali.it

Gli anni della svolta

foto del giudice Sossi rapito dalle BR

Per le Brigate Rosse il periodo compreso tra gli anni 1974 e il 1976 fu caratterizzato da un'escalation di situazioni criminose, ma - e forse è proprio questa la cosa degna di nota - anche da una serie di mutamenti, di trasformazioni tali da far divenire questo biennio come un vero e proprio spartiacque nella vita delle stesse Br. Non è difficile infatti notare come i bersagli delle azioni divennero più politici e cominciò a prevalere nella gestione delle azioni una tendenza "militarista" che si contrappose di fatto all'orientamento "populista" di sostegno alle lotte di massa degli operai tipico della prima fase. Innovazioni importanti riguardarono anzi tutto la logica che guidava le azioni: l'intervento si spostò dalla fabbrica verso obbiettivi - appunto - più squisitamente politici, dalla difesa armata contro le pretese involuzioni autoritarie si passò cioè all'attacco contro i «tentativi neogollisti» che secondo loro erano dietro l'angolo, ed una quota consistente delle risorse venne utilizzata per lo scontro con gli apparati repressivi dello stato. Tutto questo avvenne probabilmente, oltre che per una naturale evoluzione della fase della c.d. propaganda armata, anche per una coincidenza di fattori, non tutti e non completamente "interni" alla stessa organizzazione. Un primo salto di qualità lo si ebbe nella primavera del 1974, e più precisamente il 18 Aprile, data di anniversario di quelle elezioni politiche che nel '48 avevano portato al potere la DC di De Gasperi. A Genova un commando brigatista capeggiato da Margherita Cagol e Alberto Franceschini rapì il procuratore Mario Sossi, già protagonista del processo al gruppo terroristico "22 Ottobre" e da tempo inviso alle forze della sinistra extraparlamentare per la sua vigorosa azione repressiva. Nel comunicato di rivendicazione le Br scrissero tra l'altro che Sossi era una «pedina fondamentale dello scacchiere della controrivoluzione, persecutore fanatico della classe operaia e del crimine per eccellenza: quello di essersi rivoltati con le armi all'ordine e alle leggi della borghesia [...] entriamo in una nuova fase della guerra di classe: il compito principale delle forze rivoluzionarie è quello di rompere l'accerchiamento delle lotte operaie estendendo la resistenza e l'iniziativa armata ai centri vitali dello stato». Al contrario di come erano andate fino ad allora le cose, e malgrado l'apparente efficienza del commando, lo svolgimento dell'azione non andò tutto liscio: mentre si allontanavano dalla città con l'ostaggio chiuso in un sacco di iuta, credendosi inseguiti dalle auto carabinieri i brigatisti rischiarono di uccidersi tra di loro quando dall'auto di Franceschini fecero fuoco su di una macchina che invece si rivelò poi essere quella condotta da Mara Cagol; paradossalmente fu proprio la ventiquattrore del P.M. appena rapito a salvare la compagna di Curcio dai colpi esplosi dai suoi compagni facendole da scudo. Il sequestro Sossi fu la prima azione ad avere un impatto sulla politica reale di una certa consistenza; da un lato perché fu portato a termine quando era in corso la campagna per il referendum sul divorzio - ed infatti alcuni comunicati nei quali le Br dichiaravano di schierarsi a fianco delle forze progressiste furono usati a scopo di propaganda da alcuni giornali, tra i quali il Tempo e Il Giornale d'Italia - e poi perché innescò una serie di roventi polemiche tra le forze dell'ordine e la magistratura e tra questa e i politici, anche in virtù del fatto che i brigatisti avevano proposto di barattare la vita dell'ostaggio con la libertà dei compagni del gruppo "22 Ottobre" appena condannati. I giudici accusarono la Polizia di inefficienza, i politici di interferire con l'autonomia della magistratura, fattostà che la Corte d'Assise d'Appello del tribunale di Genova in data 20 Maggio concesse la libertà provvisoria d'ufficio ai detenuti, e solo la contemporanea azione del PCI (che secondo quanto raccontato da Franceschini, con il suo intervento bloccò di fatto la trattativa delle Br con l'ambasciata cubana per far concedere agli 8 detenuti l'asilo politico nell'isola caraibica), e del Procuratore della Repubblica Francesco Coco, impedì che il rilascio venisse effettivamente portato a termine. La liberazione di Sossi avvenne il 23 Maggio a Milano senza alcun risultato concreto per i membri della ormai ex "22 Ottobre", ma con un rilevante successo propagandistico delle Br, un successo al quale contribuirono non poco le dichiarazioni rilasciate dallo stesso magistrato ai giornali - ed in particolare al Corriere della Sera - subito dopo il suo rilascio, un'intervista nella quale Sossi definiva i brigatisti come «organizzatissimi», «documentatissimi» e soprattutto «numerosissimi». Lo stesso giorno nel quale il "Corsera" pubblicava l'intervista a Sossi, a Brescia in Piazza della Loggia scoppiò una bomba che uccise otto dei partecipanti ad una manifestazione antifascista e ne ferì novantaquattro. Il gravissimo attentato venne subito attribuito all'estrema destra, ma ciò che conta porre in risalto è che agli occhi dell'opinione pubblica venne sottolineato il contrasto tra le "cavalleresche" Br, che avevano rilasciato Sossi incolume, e i supposti fascisti, visti come spietati e sanguinari, che uccidono inermi cittadini. Ma all'interno delle Br l'Ufficio Affari Riservati del Viminale era riuscito ad infiltrare un altro agente, ed anzi era stato proprio questo - il già citato "Rocco" - a prelevare materialmente il giudice Sossi insieme ad Alfredo Bonavita per portarlo alla così detta "Prigione del Popolo". Francesco Marra, questo il nome di battesimo di "Rocco", era un paracadutista addestratosi in Toscana e in Sardegna all'uso delle armi e con una sorta di specializzazione nella pratica delle "gambizzazioni" (della quale faranno ampio ricorso le Br nel corso degli anni) prima di entrare nelle Brigate Rosse; in seguito, a differenza di Pisetta, la doppia identità di Marra non venne alla luce, ed il suo nome è rimasto fuori da tutti i processi, stranamente coperto anche da Bonavita dopo il suo pentimento. Anche il capo del SID, generale Vito Miceli (che come detto risulterà presente negli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2), disponeva di un infiltrato nelle Br. Nei giorni del rapimento Sossi egli organizzò una riunione con i suoi stretti collaboratori illustrando loro un piano per liberare il magistrato che dava per scontata la conoscenza dell'ubicazione della "prigione del popolo". Secondo quanto scritto dall'ex Sen. Flamigni nel suo ultimo libro Convergenze parallele, il generale Miceli era pronto a servirsi del proprio infiltrato nelle Brigate Rosse per far concludere in modo tragico il rapimento, ma solo le perplessità espresse da alcuni ufficiali del SID presenti alla riunione permisero di arrivare al lieto fine della vicenda stessa. Questo particolare risulta essere di fondamentale importanza per comprendere come già nel '74 alcuni apparati "deviati" dello stato - ma non solo essi - fossero pronti ad utilizzare le Br come strumento di lotta politica, ad alimentare il terrorismo per pilotarlo anziché combatterlo, in modo da far aumentare l'allarme sociale con tutte le conseguenze che ciò avrebbe dovuto - secondo i dettami della c.d. strategia della tensione della quale abbiamo già detto - comportare dal punto di vista dei riflessi elettorali. Per questo motivo era però necessario che le Brigate Rosse da "dimostrative" e "propagandistiche" divenissero "sanguinarie", e la trasformazione non tarderà a verificarsi, anche se in tempi successivi e dopo altri importanti avvenimenti che - in un certo senso - spinsero il partito armato (come ama chiamarlo Giorgio Galli) in questa precisa direzione. Tra gli avvenimenti "strani" della vita delle Br è impossibile non menzionare anche l'infiltrazione da parte dei Carabinieri di Silvano Girotto, la terza infiltrazione all'interno del gruppo nei suoi primi 4 anni di vita, un'ulteriore defayans della banda di Curcio e compagni che dimostra come a confronto con l'esperienza ed il mestiere del servizio di sicurezza dello stato - o quantomeno di parte di esso - le prime Brigate Rosse possano essere tranquillamente definite (e spero non me ne vogliano i diretti interessati) come "Tupamaros all'amatriciana". Reso noto dai rotocalchi come "Frate Mitra", Girotto era un ex francescano con dei trascorsi - a dire il vero poco chiari - di guerrigliero in Bolivia ma che tra le forze extraparlamentari italiane (Lotta Continua in primis) godeva di una fama di tutto rispetto, e che riuscì a far catturare in un sol colpo due dei capi storici delle Brigate Rosse del calibro di Alberto Franceschini e Renato Curcio, l'8 Giugno 1974. Come racconta Franceschini «Frate mitra appena rientrato in Italia cercò subito di entrare in contatto con le Br [...] si fece precedere da alcune lettere dei dirigenti del Partito Comunista di Cuba in cui si attestava di essere addestrato alla guerriglia e vantò rapporti anche con i Tupamaros. La cosa non poteva non interessarci». Dopo alcuni tentennamenti i brigatisti si fecero convincere ad incontrare Girotto, e durante il terzo incontro, a Pinerolo, la trappola dei Carabinieri scattò inesorabile. I lati oscuri riscontrabili in merito a questo arresto sono diversi: anzi tutto bisogna fare riferimento ad una telefonata ricevuta dalla moglie dell'avvocato - con note simpatie brigatiste - Arrigo Levati che metteva in preallarme l'organizzazione sui rischi dell'appuntamento. Da più parti, ivi compresi i diretti interessati, si ipotizza che gli autori di quella telefonata furono gli agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, da sempre interessato alle attività delle Br per via dell'instabilità che la loro azione terroristica avrebbe potuto portare ad un governo - quello italiano, appunto - che da tempo stava seguendo una linea in politica estera definibile come filo-araba. A confermare questa ipotesi ci sono i racconti degli stessi terroristi, (Moretti e Peci) i quali affermano che già nel '74 il Mossad si era fatto vivo con l'organizzazione offrendo armi e denaro, in più, per rompere la loro iniziale diffidenza, gli posero - come si suole dire - su di un piatto d'argento l'indirizzo del nascondiglio del "traditore" Pisetta, che era stato portato dalla polizia italiana in Germania. Alla luce di questi elementi non ritengo impossibile dare credito alla veridicità di questa ipotesi, una congettura che, tra le altre cose, è condivisa anche da Giorgio Bocca, ma che non cambia l'interessante realtà delle cose: attorno alle Br ruotavano, fin dall'inizio, tutta una serie di interessi particolari, anche molto differenti tra loro. È un fatto, comunque, che la telefonata di avvertimento ci fu veramente, e fu lo stesso Moretti ad essere incaricato di darsi da fare per cercare di rintracciare Curcio prima dell'appuntamento con Girotto; una ricerca che però si rivelò vana, come altrettanto vane e poco convincenti sono - a mio modesto parere - le spiegazioni fornite da Moretti per giustificare il suo fallimento in quella occasione. E poi, come ha scritto Franceschini «Pur conoscendo ora e luogo dell'appuntamento arrivò con un'ora di ritardo, quando eravamo già stati arrestati». Come afferma sempre Franceschini: «Quella era la seconda volta che i servizi di sicurezza avrebbero potuto arrestare tutti i brigatisti e porre fine all'esperienza delle Br [...] noi avevamo concordato con Girotto di dare vita a una scuola di addestramento, da lui diretta, alla cascina Spiotta, dove nel giro di un mese tutti gli appartenenti all'organizzazione, un po' alla volta, avrebbero partecipato ad un breve corso di addestramento. Se chi lo aveva infiltrato avesse chiesto a Girotto di continuare a stare al gioco dopo un mese sarebbe stato in grado di far arrestare non solo me e Curcio, ma tutti i brigatisti. E il fatto che questo non sia avvenuto è la riprova che l'organizzazione delle Br poteva tornare comoda per qualcuno delle alte sfere dei servizi di sicurezza e del potere». Si deve fare menzione anche del vertice che i dirigenti delle Br avevano avuto giorni prima a Parma, una riunione durante la quale era stato deciso di estromettere Moretti dal Comitato Esecutivo per via dell'intransigenza dimostrata durante la trattativa per la liberazione di Sossi. Questa dato va tenuto presente allorché molti osservatori - e Sergio Flamigni tra tutti - ritengono che Mario Moretti non abbia volutamente rintracciato Curcio e Franceschini il giorno del loro arresto. L'ipotesi si accredita maggiormente se si considerano altre due (chiamiamole così) "stranezze": prima di tutto il fatto che se i Carabinieri avessero aspettato solamente qualche ora in più sarebbero stati in grado di annientare tutta la dirigenza delle Brigate Rosse arrestando, appunto, anche Moretti. La seconda cosa bizzarra è che nonostante durante le proprie audizioni d'avanti alla Commissione Moro il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa abbia parlato chiaramente di foto scattate a tutti i brigatisti durante i primi incontri con Frate Mitra (e Moretti era presente al 2° di quegli incontri), le foto segnaletiche su Moretti non comparvero mai al processo di Torino contro il "nucleo storico" delle Br, ed in più egli non sarà coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria prima del caso Moro. Insomma, le sue foto segnaletiche erano note alle forze di polizia almeno quanto la sua identità, però - misteriosamente - non fecero la loro apparizione ufficiale se non molto più tardi. La conclusione cui si vuole arrivare, e che appare tanto perfida per lucidità quanto logica, è che per un motivo o per un altro le forze dell'ordine (o quantomeno parte di esse) lasciarono volutamente in libertà Mario Moretti, in modo che egli potesse riorganizzare le Br a modo suo, seguendo cioè una logica di spietata "militarizzazione", base di partenza necessaria per una svolta sanguinaria del gruppo. Per correttezza vanno menzionate altre ipotesi plausibili circa il mancato avvertimento di Curcio da parte di Moretti: la prima va obbligatoriamente in contro a quanto raccontato dallo stesso Moretti nel suo libro-intervista, e secondo la quale lui avrebbe profuso il massimo impegno nella ricerca dei suoi compagni di avventura, ma solo il caso avrebbe influito negativamente sulla sua caccia. Ipotesi che personalmente giudico un pò bizzarra inquanto sarebbe bastato lanciare un allarme di qualsiasi tipo anche telefonicamente (un incendio, un incidente stradale...) per far accorrere in loco Vigili del fuoco o ambulanze e far così saltare l'incontro. L'altra ipotesi che mi viene di fare, in vero trascurata da tutti gli studiosi cui ho fatto riferimento, è che Moretti abbia di sua volontà evitato di avvertire della trappola il duo Franceschini-Curcio in virtù dell'estromissione dal Comitato Esecutivo impostagli nella riunione tenutasi il giorno prima a Parma proprio dai duo che sarà poi arrestato. È - la mia - un'ipotesi che, volendo considerare anche l'aspetto umano della storia, collegando quindi il tutto al risentimento personale all'ambizione di Moretti, si pone a cavallo tra chi sostiene la completa mala fede del futuro leader del gruppo (sottintendendo, sempre tra le righe, la sua appartenenza o connivenza con servizi deviati o con altre organizzazioni con sede all'estero) e chi invece si dice convinto delle sue buone intenzioni. Per la verità non credo nemmeno troppo all'ipotesi che ho personalmente formulato, facendo però della pura accademia non mi sento a questo punto di scartare nessuna ipotesi plausibile, seppure remota o fortemente improbabile. È una delle spiegazioni possibili per questa precisa questione, ed io come tale la riporto. In direzione opposta si va considerando un altro aspetto. Nella riunione di Parma, infatti, erano state altre le cose interessanti su cui lavorare, e di ciò parla lo stesso Renato Curcio nel suo libro-intervista di Mario Scialoja "A viso aperto". Raccontando la storia della sua prima cattura, Curcio dice che Mario Moretti, che doveva avvertirlo del pericolo che correva, "non ritiene necessario agire subito perché sa che io e Franceschini stiamo lavorando a un certo libricino in una casa di Parma e che da quel posto non mi sarei mosso fino a sabato notte o domenica mattina". Alla domanda di Scialoja "Di che libricino si trattava?" Curcio risponde: "Avevamo compiuto un'incursione negli uffici milanesi di Edgardo Sogno impadronendoci di centinaia di lettere e elenchi di nomi di politici, diplomatici, militari, magistrati, ufficiali di polizia e dei carabinieri [insomma tutta la rete delle adesioni al cosiddetto "Golpe bianco" preparato dall'ex partigiano liberale con l'appoggio degli americani di cui lui stesso ha ammesso di essere stato il promotore nel suo libro di memorie postumo 'Testamento di un anticomunista']. Giudicavamo quel materiale esplosivo e lo volevamo raccogliere in un documento da rendere pubblico. Purtroppo avevamo tutto il malloppo con noi al momento dell'arresto e così anche quella documentazione preziosa finì in mano ai carabinieri. Qualche anno dopo, al processo di Torino, chiesi al presidente Barbaro di rendere noto il contenuto del fascicolo che si trovava nella mia macchina quando mi arrestarono e lui rispose imbarazzato: "Non si trova più" [...] Qualcuno deve averlo trafugato dagli archivi giudiziari". Il Comitato di resistenza democratica, che era situato in via Guicciardini, era l'ufficio milanese di Edgardo Sogno il quale stava dunque lavorando organizzare un colpo di Stato che avrebbe dovuto scattare nell'agosto del 1974. I brigatisti che il 2 maggio di quell'anno assaltano la sede di Sogno non sapevano niente, tantomeno che i progetti di golpe erano ad uno stadio avanzato. Portano dunque via tutti i documenti che trovano negli uffici, tra cui i materiali di un convegno sulla "riforma dello Stato" tenuto a Firenze e un elenco di duemila nomi di amici e sostenitori di Sogno. Sarebbe dunque interessante invece sapere qualcosa di più su quella sparizione. Anche in questo caso, l'intervento provvidenziale dell'infiltrato Girotto, oltre ad arrestare Franceschini e Curcio, servì a recuperare delle carte decisamente "imbarazzanti". A questo punto un'altra supposizione nasce spontanea: l'arresto di Pinerolo da parte dei Carabinieri scattò in quanto essi sapevano della enorme pericolosità delle carte cadute in mano delle Br e dunque dovevano recuperarle in ogni modo? In questa ipotesi altri due scenari si aprono innanzi a noi: col primo si considera che fu dunque merito di quell'arresto "urgentemente anticipato" se Moretti ed il resto delle Br si salvarono dalla cattura. Il secondo considera poi la sicurezza con la quale i Carabinieri, arrestando Curcio e Franceschini, agirono al fine di trovare - assieme a loro - i fogli in questione. In questo caso chi altro della Direzione Strategica era a conoscenza del fatto che quelle carte erano proprio in viaggio per Pinerolo (e dunque può aver fatto la soffiata alla "Benemerita")? Sempre il solito Mario Moretti. In ogni caso, il 1974 "nero" delle Brigate Rosse non si esaurì con questi due, seppur clamorosi, arresti. Il 10 Ottobre venne individuata la più importante delle basi, quella di Robbiano di Mediglia, ed arrestati i brigatisti Pietro Bassi e Roberto Ognibene; quindici giorni dopo, sorpresi da una pattuglia, vennero arrestati a Torino anche Prospero Gallinari (in seguito evaso e rientrato nelle Br in tempo per essere tra i protagonisti del rapimento di Aldo Moro) e Alfredo Buonavita. Le Br superstiti, tutte concentrate attorno a Moretti a alla Cagol, furono costrette a ripartire - se così si può dire - da capo, ripiegando su forme di lotta meno spettacolari e forse ormai superate: incendi di macchine e attentati con delle bottiglie molotov, che però se non altro servivano al gruppo per far vedere di esistere ancora e per cercare nuove leve all'interno delle fabbriche e nelle borgate, tradizionali sacche di reclutamento. La controffensiva delle forze di sicurezza colse le Br in una fase che avrebbe dovuto essere di potenziamento organizzativo, dopo il successo propagandistico della "Operazione Girasole", e nell'ambito del quale Franceschini e Pelli si erano recati a Roma per tentare, senza successo, di crearvi una colonna. E' di quel periodo, come racconta lo stesso Franceschini, l'idea di rapire Giulio Andreotti, che per alcuni giorni venne seguito e del quale vennero studiati orari e spostamenti. Le Brigate Rosse, decimate dagli arresti, attraversarono dunque la loro prima grave crisi; le forze "regolari" ancora a piede libero non erano più di una dozzina, un indebolimento che segnò di fatto la fine del primo ciclo, e con esso della leadership del gruppo fondatore delle Br. Prima della fine del '74 la Direzione Strategica delle Br si riunì per la prima volta in Veneto, Semeria e la Cagol andarono a sostituire Curcio e Franceschini nell'esecutivo, ed è probabilmente in quell'occasione venne anche deciso di far evadere proprio Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato, in quella che ancor oggi è considerata tra le azioni più incredibili - ma tecnicamente perfette - del gruppo. È bene dire fin da adesso che ai preparativi dell'azione partecipò anche "Rocco", l'agente infiltrato a servizio del Viminale, cosa cui volendo si può far risalire l'esito finale dell'operazione. La cronaca dei fatti è fin troppo lineare, nel senso che il 18 Febbraio 1975 alle 16.10 un commando brigatista guidato da "Mara" Cagol - che con una scusa banale (portare un pacco a un detenuto) fece da esca - fa irruzione nell'istituto penitenziario di Casale Monferrato; in pochi minuti, e senza sparare un colpo, le Br riescono a far evadere Renato Curcio. Tutto filò liscio come l'olio, ma il fatto che dal Carcere lo stesso Curcio avesse potuto rilasciare interviste, ed essere poi facilmente liberato, alimentò nuovi dubbi sulla connivenza tra partito armato e servizi segreti, tanto che Avanguardia Operaia parlò sarcasticamente di "Brigate di Stato". Come ammesso dallo stesso Moretti, il fallimento di quell'azione avrebbe significato la fine di ciò che era rimasto della Direzione Strategica, in realtà la condizione generale delle carceri italiane era tale da far chiedere - poco tempo dopo - al Generale Dalla Chiesa l'istituzione di carceri di massima sicurezza, o "carceri speciali", ed alla luce di questo particolare, la fuga di Curcio non appare poi così impossibile. Certo è che lo stesso Dalla Chiesa, audito dalla Commissione Moro l'8 Luglio '80, parlò del carcere di Casale Monferrato in questi termini: "onestamente tra tutte le carceri non era certamente il più protetto, né il meglio gestito [...] vi è da spaventarsi, mettersi le mani nei capelli per una gestione del genere". Ma la cosa più 'buffa' è che l'evasione fu preanunciata a Curcio il giorno prima con un telegramma dal testo non propriamente indecifrabile: "Il pacco arriva domani". La situazione nel paese non accennava però a distendersi, dopo quella di Piazza della Loggia altre stragi di matrice fascista erano servite a far mantenere alta la tensione: quella del treno Italicus e quella di Peteano. Il 16 Aprile 1975, a Milano, un militante di Avanguardia Nazionale (un organizzazione neofascista) uccise un giovane del Movimento Studentesco, fu l'inizio di quelle che verranno chiamate le "giornate di Aprile", e nel corso delle quali cortei di decine di migliaia di persone, talvolta egemonizzate da piccole minoranze armate dell'Autonomia e di quello che a fine del '76 sarà il nucleo fondatore di Prima Linea a Milano, dettero vita a gravi scontri e disordini. In questo periodo di rinnovata tensione le Br prepararono la loro prima "Risoluzione Strategica", ed è proprio all'interno di tale documento che apparve per la prima volta il termine SIM, Stato Imperialista delle Multinazionali: lo stato venne inquadrato come servitore dei grandi gruppi economici imperialisti internazionali, e la DC definita come l'asse portante di questo progetto; "la nostra linea" si leggeva tra l'altro "entro questo quadro generale resta quella di un attacco convergente al cuore dello stato [...] compito dell'azione rivoluzionaria in questa fase è la massima disarticolazione politica possibile, tanto del regime che dello stato [...] Nell'immediato l'aspetto fondamentale della questione rimane la costruzione del Partito combattente come reale interprete dei bisogni politici e militari dello strato di classe "oggettivamente" rivoluzionario [...] non si tratta di organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata, ma di radicare l'organizzazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe". Il documento - ed è forse questo l'aspetto rilevante dell'analisi, e punto che finì con il coinvolgere all'interno del partito armato persone di una certa levatura come il Prof. Enrico Fenzi - insisteva sull'infondata ipotesi che la rivoluzione fosse imminente, che, come dirà poi lo stesso Fenzi «qualcosa di grosso potesse accadere da un giorno all'altro». Questo sarà l'ultimo documento cui dette un contributo teorico anche Curcio, dal 1976 infatti, allorché il nucleo storico brigatista sarà in carcere (eccezion fatta per Moretti), la contrapposizione con le linee del PCI diventerà molto più drastica, forse anche per l'entrata nelle Br di persone provenienti da Potere Operaio - come Valerio Morucci - e definite da Ognibene addirittura come «borghesi anticomunisti». Il 4 Giugno del '75, con lo scopo di estorcere denaro alla sua facoltosa famiglia per finanziare l'organizzazione, le Br rapiscono Vittorio Vallarino Gancia, noto industriale piemontese. Un commando guidato da Mara Cagol e composto da altri 5 elementi sequestrò il facoltoso uomo d'affari portandolo nel covo brigatista sito alla cascina Spiotta, ad Arzello nei pressi di Acqui Terme. Le cose però non andarono come previsto, ed il giorno successivo una pattuglia dei Carabinieri in perlustrazione individuò il nascondiglio cogliendo impreparati i rapitori; nella sparatoria che ne seguì rimasero uccisi l'appuntato D'Alfonso e Margherita "Mara" Cagol. Pochi giorni dopo, i Carabinieri scoprirono un'altra base delle Br a Baranzate di Bollate (Milano), ed arrestano altri due membri dell'esecutivo: Zuffada e Casaletti. Per la cronaca, sempre nel '75 vengono arrestati in diverse operazioni dai reparti speciali comandati dal Generale Dalla Chiesa anche i brigatisti Arialdo Lintrami, Tonino Paroli, del nucleo dei fondatori, poi Carlo Picchiura, responsabile della colonna veneta, e Umberto Farioli e Paola Besuschio del nucleo storico della Sit-Siemens. La morte "sul campo" di Mara Cagol, probabilmente uccisa dai Carabinieri quando già ferita si stava arrendendo, fece assumere alle Br un alone romantico, e una spinta emotiva in questa direzione la si ha leggendo il comunicato con cui i suoi compagni ne davano l'annuncio: "È caduta combattendo Margherita Cagol [...] la sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà più dimenticare [...] che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di Mara meditando sull'insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con il suo lavoro, con la sua vita. Che mille braccia si protendano a raccogliere il suo fucile [...] Mara, un fiore è sbocciato e questo fiore di libertà le Brigate Rosse continueranno a coltivarlo sino alla vittoria". Su i giornali di tutta l'Italia, intanto, si discusse su come avesse potuto una ragazza cattolica, di buona famiglia, colta ed intelligente intraprendere la strada della lotta armata per il comunismo. Prima che potesse completare gli arresti e smantellare del tutto l'organizzazione brigatista, l'11 Luglio '75 il Nucleo speciale anti-terrorismo del generale Dalla Chiesa venne sciolto con un provvedimento del comandante generale dell'Arma, il generale Enrico Mino (affiliato alla P2). Sempre nell'estate del '75, il capo dell'ufficio D del SID, generale Maletti, aveva inviato al Ministero degli Interni un rapporto nel quale si informava che nelle Br era il corso una riorganizzazione in senso più segreto e clandestino, ed un rilancio delle attività con programmi più cruenti e con il proposito esplicito di sparare. Dirà poi lo stesso Maletti che «È quasi certo che all'epoca le segnalazioni su un'eversione extraparlamentare di sinistra, su un terrorismo di sinistra, non fossero particolarmente gradite a livello politico [...] la mia sensazione era che non ci fosse un orecchio pronto ad accogliere questi dati». Comunque, mentre venivano depositati mazzi di fiori sul prato dov'era morta la Cagol, e diffusi alcuni adesivi in sua memoria, le Brigate Rosse tentano di superare la loro crisi numerica («le Br hanno ricevuto un colpo mortale» scrisse A. Barbato su La Stampa dell'8 Giugno) grazie all'afflusso di nuovi militanti provenienti in parte dall'area dell'ormai sciolto Potere Operaio (come Nadia Mantovani e Barbara Balzerani), in parte dai NAP, o ancora da giovani di famiglie e tradizioni comunista (come suggerisce l'esempio di Walter Alasia). La cosa che appare invece palese è il costante ma inesorabile distacco del partito armato da quell'humus dal quale erano arrivati molti dei primi brigatisti: le grandi fabbriche. «La fabbrica ha un peso diverso da quello che aveva nel '72» ha affermato nel suo libro-intervista Mario Moretti «perché la controrivoluzione è passata come un rullo compressore nelle fabbriche prima che altrove [...] la propaganda armata in fabbrica sta girando a vuoto [...] sembra inevitabile andare all'attacco fuori per mantenere l'offensiva». A queste - seppur giuste - motivazioni se ne devono aggiungere altre di ordine più pratico, in quanto il processo evolutivo delle Br - per lunghi tratti - è del tutto assimilabile a quello di altri gruppi armati nelle democrazie occidentali: per la logica stessa dell'agire clandestino si ha una progressiva perdita di contatto, materiale ed ideologico, con la realtà; la necessità di sottrarsi alla repressione della polizia allontana dai luoghi dell'azione collettiva, e la cosa si manifesterà in tutta la sua drammaticità quando, con la direzione di Moretti, la rigida compartimentazione e la clandestinità assoluta finiranno con il distorcere del tutto la realtà agli occhi dei brigatisti. L'offensiva delle forze dell'ordine non dava cenni di rallentare, così il 18 Gennaio 1976 in Via Maderno a Milano furono arrestati, dopo un conflitto a fuoco, Renato Curcio (che rimase anche ferito) e Nadia Mantovani, dopo che nei pressi della base erano già stati catturati Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchesa. Tra i frequentatori della base c'era anche Mario Moretti, che invece sfuggì all'arresto in modo analogo a quanto già gli era accaduto ai tempi di Pisetta. «Il suo mancato arresto fa rigermogliare i sospetti di alcuni compagni» afferma Bocca «ma le ragioni credibili ci sono»; quello che invece appare certo è che le forze di sicurezza tennero sotto controllo quel covo per giorni, ma a cadere nella trappola conseguentemente alla cattura di Curcio - oltre ai già citati brigatisti - fu qualche mese più tardi il solo Giorgio Semeria, beccato alla stazione di Milano dopo un conflitto a fuoco. I dubbi in merito furono espressi in carcere da Curcio a Franceschini in termini molto chiari: «Mi sono convinto che Moretti è una spia, è lui che mi ha fatto arrestare [...] se la Polizia fosse arrivata il Venerdì sera o il Sabato avrebbe arrestato pure lui, invece sono venuti di Domenica». Per la verità a questa accusa il giudice Caselli ha risposto facendo riferimento al fatto che dopo settimane di appostamento Curcio era sparito per due giorni per poi rientrare, così, più per paura che potesse sfuggire di nuovo che per altro, i carabinieri dettero il via all'azione. Ma anche Semeria poco tempo dopo la sua cattura si era convinto che nel suo arresto ci fosse lo zampino di un infiltrato, e che questo fosse proprio Moretti «O è una spia del KGB o dei Carabinieri» disse, così i crescenti sospetti da parte dei brigatisti detenuti attivarono una "inchiesta" interna alle Br, affidata a Lauro Azzolini e Franco Bonisoli (componenti dell'Esecutivo in quei giorni ancora in libertà), ma l'inchiesta non approdò a dei risultati. Fattostà che il comando delle Br da quel preciso momento venne praticamente assunto dal solo Moretti, e con lui al vertice le Brigate Rosse mutarono definitivamente il loro aspetto in senso sanguinario. Per la prima volta iniziarono a sparare con il fine preciso di uccidere. torna ad inizio testo

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