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Roberto bartali.it

Il "nucleo storico" delle BR

simbolo della stella a cinque punte dentro un cerchio

Come abbiamo visto, all'interno del Collettivo Politico Metropolitano si fusero esperienze diverse, sia dal punto di vista politico che da quello umano. La particolarità delle neonate Brigate Rosse fu, infatti, quella di avere al proprio interno tre principali filoni di provenienza, tre origini tipiche dei primi brigatisti, e questi sottogruppi avevano i loro esponenti di punta in coloro che, a ragione, sono ritenuti unanimemente parte del c.d. nucleo storico: Alberto Franceschini, Renato Curcio e Mario Moretti. Esaminare il cammino che li ha portati, in modi differenti, alla lotta armata significa dunque individuare un po' l'origine di tutti - o quasi - coloro i quali le Br aiutarono a nascere e a muovere i primi passi. La grande maggioranza dei giovani che hanno finito per confluire nella lotta armata non c'è arrivata direttamente, ma sono quasi tutti passati, in precedenza, attraverso esperienze politiche "legalitarie". La loro scelta non è mai stata, dunque, né improvvisata né istintiva, bensì ha rappresentato la seconda o la terza tappa di un processo di maturazione politica; una tappa ai loro occhi obbligata, frutto di una certa analisi della situazione politica ed in funzione di determinati obiettivi. Clandestinità e lotta armata erano dunque l'ultima trincea, l'ultimo punto di approdo dopo una serie di sconfitte, di quanti non hanno saputo o voluto rassegnarsi al graduale ma inesorabile ritorno negli argini della grande piena contestatrice del biennio '68-'69 né alla violenza che -ai loro occhi- lo stato aveva messo sul piatto con la bomba di Piazza Fontana. torna ad inizio testo

Alberto Franceschini

fotografia di Alberto Franceschini in bianco e nero

Alberto Franceschini appartiene a quella componente delle Br che proveniva da Reggio Emilia, cioè - come l'ha definita Robert Made nel suo Red Brigades, the story of italian terrorism - "the comunist heartland"; Nacque nel '47 in una famiglia fieramente comunista: il padre Carlo durante il ventennio era stato in prigione per attività antifascista, ed anche il nonno era passato agli altari come uno dei fondatori nel '21 del PCI dopo la scissione di Livorno; entrambi, insieme, parteciparono alla cacciata dei nazifascisti nelle file della "resistenza". L'ipotesi più logica in relazione al fatto di essere nato in un simile humus ideologico si verificò puntualmente, ed Alberto entrò in politica giovanissimo nelle file della FGCI, non in pochi ipotizzavano per lui una brillante carriera nei ranghi del PCI. Destino volle che la sua entrata in politica coincidesse con il mancato incontro tra il Partito comunista e le istanze nate dal '68, istanze largamente condivise tra i giovani comunisti e che porteranno ad uno scontro ideologico e generazionale profondo e quantomai significativo, per quanto proprio la sezione di Reggio Emilia era tra le più aperte nei confronti delle richieste giovanili. Dopo una manifestazione alla base NATO di Miramare di Rimini nella quale molti ragazzi di sinistra, compresi quelli della federazione giovanile di Reggio, si erano trovati contrapposti ad un incredulo servizio d'ordine del PCI, Franceschini si dimise dalla FGCI, «La burocrazia ci divide, ci ritroveremo uniti nelle lotte» scrisse nella sua lettera d'addio, e con lui uscirono diversi altri giovani con i quali egli andò a formare un nuovo gruppo, il Collettivo politico operai studenti. Il CPOS si pose all'inizio come punto d'incontro di tutte le voci di dissenso, uno stimolo alla critica e al dibattito, uno spazio dove portare avanti un certo tipo di lavoro che non era più possibile svolgere all'interno del partito. Del gruppo, tra gi altri, facevano parte anche Lauro Azzolini, Fabrizio Pelli, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari, tutti in seguito passati nelle Br. Gli scontri con il PCI si fecero però sempre più frequenti, e l'estremizzazione dell'evoluzione ideologica di Franceschini e compagni andò maturando di pari passo con le chiusure e l'isolamento che i dirigenti del partito inducevano via via nei loro confronti. Nel frattempo i contatti con i gruppi di operai e studenti milanesi si fecero sempre più frequenti, i racconti e le esperienze delle lotte nelle grandi metropoli erano il pepe delle monotone giornate reggiane, e poi si voleva a tutti i costi un confronto con altre realtà. In particolare Franceschini divenne molto amico di Renato Curcio, tanto che nel 1970 i rapporti tra il "gruppo dell'appartamento" di Reggio Emilia e quello milanese che ruotava attorno al giornale Sinistra proletaria si fecero così assidui che i due gruppi finirono per fondersi sotto la sigla comune di "Sinistra Proletaria". Ben presto in molti all'interno del CPOS si resero conto che non potevano sperare di sviluppare a Reggio un'azione analoga a quella condotta dai "compagni" a Milano, troppo diverse erano le condizioni, così accadde che l'unica maniera per dare un contributo vero alle lotte divenne il trasferimento nella metropoli lombarda. Fu così che si concluse l'esperienza di quello che era stato il Collettivo di Reggio Emilia: molti partirono, alcuni per restarvi, altri invece tornarono perché nella verifica di Milano non trovano la conferma delle premesse ideologiche e strategiche che li avevano spinti a tentare quell'esperienza, altri perché si resero conto che la strada intrapresa portava direttamente alla clandestinità ed alla lotta armata, e non si sentirono di proseguire. Infine per altri ancora, e tra loro Prospero Gallinari, il problema immediato non si pose e venne semplicemente rinviato. A Milano Franceschini visse dapprima in una "comune" insieme ad alcuni tecnici ed operai - tra i quali Mario Moretti -, infine iniziò a dividere un appartamento, e la propria esistenza, con la coppia formata da Mara Cagol e Renato Curcio. Per lui il salto nella clandestinità avverrà nel Febbraio 1972, quando, non rispondendo alla chiamata per il servizio militare, diventerà in primo brigatista ufficialmente latitante. Come ha raccontato nel suo libro , oltre all'ideologia comunista, alla voglia di cambiare il mondo, al presentimento che in Italia i tempi fossero veramente maturi per la rivoluzione, quello che spingeva Franceschini alla lotta armata era una sorta di collegamento mentale, un "filo rosso" che sentiva esistere tra lui e i vecchi compagni che, come i suoi genitori, avevano combattuto nella resistenza. Il mito del partigianato rosso, degli ideali traditi dalla svolta di Salerno fatta da Togliatti nel '44, il pensiero di dover terminare quella rivoluzione che il padre e tanti come lui non avevano saputo, o potuto, portare a termine, erano uno stimolo importante nella sua vita, tanto che quelle armi regalategli da un vecchio partigiano (che le aveva tenute nascoste proprio in vista della rivoluzione) divennero per lui molto più del passaggio di un testimone: un simbolo, uno sprono a continuare nella direzione della lotta armata per il comunismo. Dalle carte cecoslovacche (più precisamente dalla lista di 12 nomi fatta dal generale Jan Sejna) e dall'archivio Mitrokhin - esiste dunque un riscontro incrociato - siamo recentemente venuti a sapere che Franceschini era in contatto con i servizi segreti Cechi, ed anzi, era tra i brigatisti che si sono recati in dei campi di addestramento gestiti dal GRU, cioè dal servizio segreto militare sovietico, in Cecoslovacchia per attività di terrorismo. Ad ulteriore conferma di ciò, ed uso le testuali parole del deputato di AN Fragalà: «nel 1975 l'onorevole Berlinguer, allora segretario del PCI, manda l'onorevole Cacciapuoti in Cecoslovacchia per dire: "Attenzione, un amico del PCI, all'interno dei Servizi segreti italiani, ci ha comunicato che hanno le prove che Franceschini e compagni sono preparati nei campi di addestramento cecoslovacchi. Se questa cosa viene alla luce siamo tutti rovinati, voi come Repubblica socialista sovietica, noi come partito comunista». Insomma, oltre che ad una simbolica consegna di armi partigiane, con ogni probabilità si assistì anche ad un passaggio di contatti con la Cecoslovacchia, paese nel quale un gran numero di ex partigiani si erano rifugiati - con l'aiuto del PCI - perchè si erano macchiati di pesanti reati nell'immediato dopoguerra, e dove erano predenti dei veri campi di addestramento alla guerriglia.
E' comunque corretto anche dire che il diretto interessato ha sempre smentito, in modo categorico, di essere mai stato in Cecoslovacchia; e gli ultimi documenti provenienti da quel paese sembrerebbero dargli ragione. torna ad inizio testo

Renato Curcio

fotografia di Renato Curcio in bianco e nero

Renato Curcio fa invece parte di quei brigatisti che hanno maturato le loro esistenze ed il loro credo ideologico all'interno delle lotte universitarie del 1968. Anagraficamente è nato a Monterotondo in provincia di Roma nel 1941, e la sua esistenza, così come quella di tanti altri tra i suoi coetanei, sembrava avviata sui binari di normalità "borghese" - per dirla alla maniera propria dei sessantottini - fino a che non prese la decisione di iscriversi all'Istituto Superiore di scienze sociali di Trento, istituto voluto e fortemente sponsorizzato dalla DC e dal suo leader trentino Flaminio Piccoli, e che doveva diventare una sorta di fucina di futuri dirigenti del paese. Quello che accadde fu invece che la "libera università", così era chiamata, divenne l'avanguardia della contestazione studentesca e un crocevia delle pulsioni internazionali, con tratti che anticiparono perfino il Maggio Francese. Curcio, che in gioventù aveva avuto delle simpatie per la destra estrema, per un lungo periodo condivide l'abitazione con un personaggio colto e carismatico qual era Mauro Rostagno (poi soprannominato il "Che" di Trento), e nel '67 formò con lui un gruppo di studio denominato 'Università Negativa', in cui veniva svolto un lavoro di formazione teorica con una rilettura di testi ignorati dai corsi universitari tra i quali Mao-Tze-Tung, Marcuse, Guevara, Panzieri, Cabral. In un documento dell'autunno di quell'anno scriveva: «L'università è uno strumento di classe. Essa, a livello ideologico, ha la funzione di produrre e trasmettere un'ideologia particolare, quella della classe dominante [...] lanciamo l'idea di una Università Negativa che riaffermi nelle università ufficiali ma in forma antagonista ad esse la necessità di un pensiero teorico, critico e dialettico». Verso la fine dello stesso anno entra a far parte della redazione della rivista "Lavoro Politico" di ispirazione marxista-leninista, dai suoi articoli traspariva però una critica verso il "filocastrismo" e verso l'avventurismo di chi arrivava a proporre azioni armate in Italia; come si legge testualmente «è solo un piccolo borghese in cerca di emozioni e non un vero rivoluzionario» chi queste azioni proponeva, poiché la presa del potere da parte del proletariato era un processo lungo che non poteva essere ridotto alla sola parola d'ordine della guerriglia. Siamo nell'autunno del '67, a Milano tre anni più tardi lo stesso Curcio affermerà che la guerriglia era «l'unica prospettiva strategica». Comunque nell'autunno del '68, all'interno del periodo di lotte ed occupazioni all'università, il problema dei tempi della rivoluzione venne ripreso in un documento redatto e firmato da Curcio e Rostagno, in esso si leggeva tra l'altro: «Non è l'esempio cubano, ma è l'esempio cinese, quello che abbiamo di fronte, cioè non è possibile l'organizzazione dell'isola felice con due anni di lotta, ma è possibile attraverso 40 anni di resistenza». Per Curcio sono mesi intensi, girò per tutta l'Italia «viaggiando da una città all'altra per parlare, discutere, osservare. E tutto ciò perché entro brevissima scadenza ci si presenta la necessità di una scelta: entrare in un partito rivoluzionario o non entrarci. Si tratta di una scelta decisiva»; così Mara Cagol, compagna di Renato Curcio fino alla sua morte, scriveva in una lettera inviata alla madre. I fatti di Avola del 2 Dicembre '68, quando la polizia sparò sui braccianti uccidendone due ma continuando a sparare ininterrottamente per 25 minuti, furono l'episodio che probabilmente causò il ripensamento di Curcio sul tema della violenza. L'impressione suscitata nell'ateneo trentino fu fortissima, si discusse per delle ore su come poter vendicare quelle vite; la linea che passò nella maggioranza dell'assemblea fu quella che diceva si alla violenza sulle cose, no agli attentati alle persone (Notiamo per inciso che questa sarà la linea delle Br fino al 76). Come ricordano alcuni che a Trento erano molto vicini a Curcio, fu dall'inizio del '69 che egli diventò ossessionato dal problema della violenza e dal ritardo dei «nostri tempi rispetto ai tempi dell'avversario». La definitiva separazione dell'ormai inseparabile duo Curcio-Cagol dal movimento studentesco trentino, maturò fra la primavera e l'estate del '69, quando il movimento fece una severa autocritica e il lavoro di massa a livello operaio venne rilanciato in coincidenza con la ripresa delle lotte alla FIAT e l'ipotesi assai concreta dello scontro d'autunno per il rinnovo dei contratti. E' così che il ciclo dell'esperienza trentina di Curcio si conclude: sbarcato a Trento su posizioni moderate e comunque niente affatto definite, addestratosi alle lotte studentesche alla scuola di Marco Boato e a forme più avanzate di lotta alla scuola di Rostagno, separatosi da quest'ultimo per cercare una nuova strada e poi rientrato nelle lotte studentesche rivalutando la violenza e l'impegno di lotta all'esterno dell'università, Curcio crebbe e trovò una ragione d'essere anche, e forse più profondamente che ad altri livelli, nel suo rapporto con Mara. Intanto il Movimento studentesco confluì in Lotta Continua, Curcio, Mara (che nel frattempo si è laureata ed è diventata sua moglie) ed altri del gruppo che gravitava attorno a Lavoro Politico, si trasferirono a Milano: fu il primo vero contatto con la fabbrica e con i quartieri operai in fermento. Durante tutto il 1970, quando ormai i coniugi Curcio sono totalmente immersi nell'esperienza del Collettivo Politico Metropolitano, Mara continuò a mantenere i contatti con la sua famiglia. Nel Febbraio '71 dopo dei tafferugli scoppiati con le forze dell'ordine in seguito allo sgombero di alcune case occupate a Milano, Mara perse il bambino che stava aspettando; il passo successivo della coppia fu quello di affittare un appartamento sotto falso nome e di non comunicare il proprio domicilio alla famiglia, forse quel bambino era l'ultimo esile legame che gli poteva impedire il salto alla clandestinità e alla lotta armata. torna ad inizio testo

Mario Moretti

fotografia di Mario Moretti in bianco e nero

Anche Mario Moretti (o almeno così racconta lui stesso nel suo libro-intervista) è figlio di genitori comunisti, la sua è però una storia differente, egli è infatti il prototipo del brigatista che ha maturato le proprie convinzioni all'interno della fabbrica, con i suoi ritmi spesso veramente infernali, le sue tensioni, e all'interno di quelle che furono le lotte dell'autunno caldo. Moretti era impiegato come tecnico della Sit-Siemens, uno stabilimento in cui lavoravano circa seimila operai e dal quale proverrà gran parte del nucleo storico delle Br: Corrado Alunni, Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada, Giuliano Isa, Umberto Farioli. La loro esperienza fu prima quella di delegati di reparto e di fabbrica durante le rivendicazioni contrattuali del '69, poi quella dei Gruppi di studio impegnati a generalizzare le esperienze delle lotte di fabbrica. Lo stesso Moretti afferma: «Riempivamo un vuoto lasciato dalla moderazione dei sindacati ufficiali, avevamo un seguito pressoché totale. Decidemmo di lavorare sulle contraddizioni del processo produttivo [...] quel gruppo non aveva nulla a che fare con il passato, ed è sentito subito come un evento politico, delicato ed enorme [...] proprio in quel periodo ho incontrato per la prima volta Mara Cagol...». Moretti convenne con Curcio nell'idea di dare vita, nel CPM, ad un organismo che sarebbe dovuto servire a far convergere, a integrare le lotte in fabbrica e le diverse esperienze; partecipò anche al convegno di Chiavari, ma subito dopo abbandonò il gruppo precorrendo in un certo senso i tempi, arrivando a pensare prima di altri che il momento di passare alla lotta armata fosse già venuto; «l'autonomia degli operai, la spontaneità non bastavano più», così con altri compagni usciti dal Collettivo Politico Metropolitano iniziò a sperimentare le «prime tecniche di clandestinità come falsificare documenti, predisporre delle basi, dei laboratori, reperire qualche arma». Moretti rientrò nel giro di Curcio, e delle neonate Br, solo nel momento in cui queste compirono le loro prime azioni, ma diventandone da subito un esponente di spicco, l'unico - forse - ad aver vissuto tutta la tragica avventura brigatista, dall'inizio alla fine. Mario Moretti verrà arrestato, infatti, solo il 4 Aprile del 1981, dopo più di dieci anni di latitanza e l'appellativo di "primula rossa delle Br". Un'altra cosa va poi posta in evidenza riguardo alla storia del terrorista Moretti, si tratta di un particolare dato che risulterà piuttosto importante per via di alcune singolari "coincidenze" che si verranno presentano leggendo il lungo e drammatico percorso evolutivo delle Br. Nel 1970 gruppo fuoriuscito dal CPM e composto, oltre che da Moretti, da Corrado Simioni, Prospero Gallinari, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, andò a creare una struttura "chiusa e sicura", super-clandestina che potesse entrare in azione, come racconta Curcio, "quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati". Le divergenze tra i principali leader del CPM, Curcio e Simioni, si accentuarono dopo che il secondo aveva cercato di covincere Mara Cagol ad andare in Grecia per un attentato all'ambasciata USA; la Cagol (che all'interno del CPM era comunque legata ad una sorta di sottogruppo segreto comandato da Simioni e chiamato "Zie rosse") si rifiutò, e la persona che prese il suo posto saltò in aria per un errato funzionamento del congegno esplosivo. La cosa, raccontata a Curcio dalla moglie, lo fece ovviamente imbestialire rendendo insanabile uno strappo che fino ad allora era soltanto "tattico", cioè inerente le modalità di passaggio alla rivoluzione. Dopo poco il gruppo legato alla figura di Simioni (fatti salvi Moretti e Gallinari) si trasferì a Parigi dove, sotto la finta copertura della scuola lingue Hyperion, agì - secondo alcuni - come vera centrale internazionale del terrorismo. I contatti tra Moretti e il cd 'Superclan' continuarono nel corso degli anni, ed è singolare sia il fatto che a gestire il rapimento Moro fu il duo Moretti-Gallinari, lo stesso che rappresentò nel corso degli anni l'ala più militarista e sanguinaria delle BR, sia che la stessa scuola aprì un ufficio di rappresentanza a Roma poco prima del rapimento per poi chiuderla nell'estate. L'attività dell'istituto Hyperion di Parigi era però noto a molti in Italia, una prova di ciò è fornita dal discorso nel quale Bettino Craxi, durante i 55 giorni del "processo popolare" delle Br ad Aldo Moro, la definì come il vero quartier generale delle Brigate Rosse. E che dire di quando una tempestiva fuga di notizie sul "piduista" Corriere della Sera (organizzata dal Sisde) vanificò l'imminente perquisizione della sede della scuola da parte della magistratura italiana nel '79? Davanti alla Commissione parlamentare stragi, il giudice Priore (titolare di ben 4 inchieste sul caso Moro) ammetterà la propria impotenza ad indagare sulle attività criminose del Superclan (accusato di traffico di armi) ma anche la propria convinzione che Hyperion avesse delle coperture proprio da parte dei servizi segreti francesi. È stato Franceschini per primo ad avanzare sospetti sui legami tra l'Hyperion e servizi segreti stranieri. In particolare il Mossad, che prima della loro cattura avvicinò Curcio e Franceschini offrendo loro appoggi e protezione, purché le Br accentuassero il loro carattere militare: "Colpite chi volete, purché colpiate: a noi interessa solo che voi esistiate", era stata la richiesta del Mossad. Ha dichiarato Franceschini alla Commissione Stragi, il 17 marzo 1999: "Duccio Berio era il braccio destro di Simioni: suo padre era un famoso medico milanese a suo dire legato ai servizi segreti israeliani. Ho quasi la certezza che il canale attraverso cui fummo contattati passava per questa persona". Berio, tra l'altro, era anche il genero di Alberto Malagugini, esponente di primo piano del vecchio PCI. Significative, a questo proposito, altre due cose dette dal giudice Rosario Priore. La prima è che "i servizi segreti di diversi paesi sapevano che in Italia si stava preparando il sequestro Moro". La seconda: "il direttore d'orchestra Igor Markevic aveva rapporti con l'Hyperion...". Impossibile non sottolineare anche i collegamenti che Moretti negli anni ha mantenuto con la RAF (che era "imparentata" con la STASI dell'allora DDR) e con l'OLP. Come ho detto, trattasi forse di strane coincidenze. Ma non saranno le sole. Nel 1994 Moretti rilasciò una lunga intervista a Carla Mosca e Rossana Rossanda dove spiega il punto di vista sulla vicenda storica delle BR e sulla scelta della lotta armata. La casa edtrice che pubblicò il volume fu l'Anabasi, che - come ci ha raccontato di recente Franceschini - venne creata poco tempo prima da uno degli uomini più fidati di Simioni: Sandro D'Alessandro. La domanda che a questo punto sorge spontanea è: rivoluzionario comunista ma protetto dalla P2...chi era dunque in realtà Corrado Simioni? Che ruolo ha giocato nella storia delle Br? Ma soprattutto, su che tavoli giocava? torna ad inizio testo

Altri Brigatisti coinvolti nel rapimento di Aldo Moro:

Prospero Gallinari — Nasce a Reggio Emilia il primo gennaio 1951, da una famiglia contadina. A quattordici anni, dopo la morte di Togliatti, si iscrive alla Fgci reggiana ed inizia a frequentare il circolo Gramsci, punto di ritrovo di due generazioni: la sua e quella dei partigiani. Con lui, Alberto Franceschini e Roberto Ognibene. Dopo i primi contrasti con la linea del partito nasce l'idea di un appartamento in cui riunirsi per proprio conto, in Via Emilia San Pietro. Alla fine degli anni '60 il gruppo esce definitivamente dal Pci. Nel novembre del 1969 Gallinari partecipa all'assemblea costitutiva del Cpm, il Collettivo politico metropolitano, a Chiavari. Nell'agosto 1970, il convegno di Pecorile, provincia di Reggio Emilia, in cui vengono fondate le Brigate Rosse. Dalle quali Gallinari si allontana poco dopo, per seguire Corrado Simioni, che ha appena rotto con Renato Curcio. Nel 1973 ritorna, insieme a Mario Moretti. Operaio, negli anni '70 Gallinari partecipa alla lunga vertenza della Magneti-Marelli. Viene arrestato per la prima volta a Torino insieme ad un altro esponente Br, Alfredo Buonavita, il 30 ottobre 1974. Nel maggio 1976 è tra i ventitré imputati del processo di Torino, per i fatti dal febbraio 1973 (sequestro Labate) a fine 1975 (compreso il sequestro del giudice Sossi). Il 2 gennaio del 1977 evade dal carcere di Treviso insieme ad altri dodici detenuti per reati comuni. Tra loro c'è Vincenzo Andraus, personaggio di spicco della malavita milanese, condannato più volte all'ergastolo per omicidio. Gallinari arriva a Roma nell'aprile del 1977 e si unisce alla costituenda Colonna romana. Il 16 marzo 1978 partecipa alla strage di Via Fani ed al sequestro di Aldo Moro. È tra gli inquilini di Via Montalcini, insieme ad Anna Laura Braghetti, a Mario Moretti ed al quarto uomo. Lo stesso pomeriggio del sequestro il Ministero degli Interni diffonde la sua scheda segnaletica insieme a quella di molti altri brigatisti. Di fatto viene arrestato il 24 settembre 1979 da personale della Questura, mentre in pieno giorno nel centro di Roma monta una targa falsa ad un'auto rubata. Nel conflitto a fuoco, le forze dell'ordine lo colpiscono alla testa. Con lui c'è la compagna Mara Nanni, già nota come appartenente ad altra formazione terroristica e successivamente transitata nelle Brigate Rosse. Tra i documenti sequestrati a Gallinari, un piano particolareggiato per una incursione di brigatisti sull'isola dell'Asinara, allo scopo di provocare una evasione in massa dei detenuti politici. Il 6 marzo del 1982, il brigatista pentito Antonio Savasta afferma che furono Prospero Gallinari e Anna Laura Braghetti, i carcerieri di Aldo Moro. Nel maggio del 1983, in aula a Torino, Bruno Seghetti si assume la paternità, anche a nome di Gallinari, del tentato omicidio di Gino Giugni. Il 24 marzo 1987 al Processo Moro-ter, parlando anche per alcuni dei compagni con lui nella "gabbia n.16", Gallinari rivendica l'uccisione del generale Licio Giorgieri, "compiuto dai compagni dell'Unione comunisti combattenti". Ancora nell'87, il Manifesto pubblica una lettera firmata da Curcio, Moretti, Iannelli e Bertolazzi in cui i quattro brigatisti dichiarano chiusa la loro esperienza di lotta armata e chiedono una rivisitazione degli anni settanta. Poco dopo aderiscono anche Gallinari e Barbara Balzerani. Il 21 aprile dello stesso anno è sventata nel carcere di Rebibbia un'evasione organizzata da 5 militanti delle Br e dei Nap: Gallinari, Seghetti, Piccioni, Delli Veneri e Lo Bianco. Il 23 ottobre 1988, ancora dal carcere di Rebibbia, Gallinari, Abatangelo, Cassetta, Lo Bianco, Locusta, Pancelli, Piccioni e Seghetti inviano alla stampa un lungo documento per dire che la "guerra è finita" e lo Stato "ha vinto". Il 24 dicembre 1988, in un altro documento redatto nel carcere romano, gli otto brigatisti rossi affermano che tutti i militanti delle formazioni armate sono stati arrestati e che, ora, la battaglia da fare "è quella per un'amnistia politica generale". Il 10 aprile 1989, a Roma, nel corso del processo alle Br, Piccioni legge un documento, sottoscritto anche da Gallinari, Arreni, Braghetti, Lo Bianco, Pancelli e Seghetti, nel quale si afferma che "fu lo Stato a dichiarare guerra". Intanto, il primo dicembre 1990, il Tribunale di sorveglianza di Torino respinge la richiesta di differimento della pena avanzata da Gallinari, affetto da disturbi cardiaci. Nel febbraio del '94 il pentito brigatista Raimondo Etro riferisce ai magistrati che Gallinari gli avrebbe raccontato che molte delle informazioni sul Ministero di Grazia e giustizia erano state fornite da Giovanni Senzani, grazie al lavoro che aveva svolto fino ad allora. Pochi giorni dopo Gallinari è ricoverato nel Policlinico Umberto Primo per ischemia cerebrale. Ha già subito diversi interventi al cuore e proprio per questo motivo il suo difensore ha da tempo chiesto alla sezione di sorveglianza del tribunale di concedergli la semilibertà o il permesso per un ricovero in una clinica privata. L'istanza viene respinta, ma, il primo marzo successivo, l'ex brigatista esce da Rebibbia in un'autoambulanza diretta a Reggio Emilia per trascorrere le vacanze pasquali a casa della madre, con un permesso di 5 giorni. Nel 1996 la pena viene sospesa. Nello stesso anno, a Roma, nel corso del processo Moro quinquies, Germano Maccari dichiara di essere stato il quarto uomo a custodire Aldo Moro. Il 17 giugno 1999, in una tavola rotonda organizzata dal Manifesto, Moretti, Balzerani e Gallinari spiegano che la lotta armata, definita un progetto forte negli anni Settanta, è finita, non esistendone più le condizioni, e negano ogni continuità con le nuove Br che hanno ucciso Massimo D'Antona. Attualmente Gallinari vive a Reggio, nel quartiere Canalina, in libertà vigilata. torna ad inizio testo

Valerio Morucci — È nato a Roma il 22 luglio del 1949. Famiglia di ex artigiani, falegnami, comunisti. Frequenta senza risultati il liceo linguistico ed il liceo artistico, poi il padre lo iscrive alla scuola alberghiera. Lavora come cameriere al cocktail lounge dell'aeroporto di Fiumicino, ma alla fine del 1967 si licenzia. Inizia a rifrequentare gruppi intorno al Liceo Mameli. Si appassiona ai temi del presessantotto: dalla psicanalisi alla linguistica. Legge Steinbeck, Dos Passos, Hemingway, Neruda, Garcia Lorca, Prevert. Ascolta Bob Dylan e Lucio Dalla. Nel '68 entra nel Movimento. Successivamente aderisce a Potere Operaio, dove diventa subito responsabile degli studenti medi. Dopo arrivano il coordinamento del Servizio d'ordine e le prime molotov. Nel febbraio del 1974 viene arrestato al valico di Chiasso per "tentata introduzione di armi e munizioni", insieme a Libero Maesano. Tra il 1976 ed il 1977 è uno dei dirigenti delle F.A.C., Formazioni Armate Comuniste, che partecipano alla fondazione della colonna romana delle Br. Il 16 marzo 1978 partecipa alla strage di Via Fani. Nei giorni del sequestro, insieme ad Adriana Faranda, svolge la funzione di postino delle lettere del presidente democristiano. In questo periodo la Digos invia un rapporto alla magistratura nel quale segnala l'appartenenza di Morucci e Faranda alla colonna romana delle Br. L'8 maggio, secondo le dichiarazioni rese da Adriana Faranda alla magistratura il 23 ottobre 1994, si svolge in via Chiabrera una riunione della direzione della colonna romana delle Br. Morucci, Seghetti, Balzerani, Faranda e Moretti stabiliscono le modalità dell'uccisione di Moro ed il trasporto del cadavere. Il 24 marzo 1979 Morucci e Faranda si installano in Viale Giulio Cesare 47, nell'abitazione di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto. I due vengono arrestati il 29 maggio. In casa viene ritrovata la mitraglietta Skorpion, usata per uccidere Moro. Il 5 luglio 1979, Lotta continua, ripresa da L'Espresso, pubblica un documento dei dissenzienti delle Br, contenente dure critiche alla direzione delle stesse. I nomi non sono pubblicati ma gli autori sono identificati nei fuoriusciti dalla colonna romana, tra i quali Morucci e Faranda. Pochi giorni dopo, i brigatisti dell'Asinara replicano alle critiche con un documento. Il 27 ottobre 1980, nel supercarcere di Nuoro, esplode la rivolta dei detenuti che chiedono di essere trasferiti in continente. Nel corso della rivolta due di loro vengono uccisi, mentre rimane ferito Roberto Ognibene. Le trattative, guidate da Alberto Franceschini e Valerio Morucci, si concludono positivamente con l'accettazione delle condizioni poste dai detenuti. Il primo settembre del 1984 Morucci dichiara al giudice istruttore Ferdinando Imposimato: «Tutti i comunicati emessi dalle Br durante il sequestro Moro ci vennero dati dal responsabile del comitato esecutivo (Mario Moretti, ndr) inserito nella colonna. Il contenuto dei comunicati veniva espresso esclusivamente dal comitato esecutivo, nel cui ambito veniva discusso a Firenze, in un luogo messo a disposizione dal comitato rivoluzionario toscano. I comunicati dati a giornali, in qualunque città venissero diffusi dalle Brigate rosse, provenivano tutti dalla stessa macchina e dallo stesso ciclostile che erano a Firenze». Nell'ottobre del 1984, in un'intervista a Il Corriere della Sera, Morucci e Faranda affermano che la "lotta armata" è fallita. Da Genova, il 5 novembre successivo, Moretti replica che "la verità di Morucci e Faranda è una delle tante versioni di comodo per i partiti e in generale per il sistema politico italiano". Il 18 gennaio del 1985, nel processo d'appello in corso a Roma per il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro, Morucci legge un documento di dissociazione dalla lotta armata firmato da 170 detenuti. Il 14 marzo successivo la Corte di assise riduce a ventidue le condanne all'ergastolo e diminuisce la pena a molti imputati: a Valerio Morucci e Adriana Faranda l'ergastolo precedentemente inflitto è commutato in trenta anni di reclusione. Il carcere a vita è invece confermato per Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Prospero Gallinari e Mario Moretti. Il 20 febbraio 1986 si conclude a Roma il processo a carico di 16 militanti delle FAC: Morucci è condannato a dieci anni di reclusione, Faranda a otto, Luigi Rosati a sei, Renato Arreni, Giancarlo Costa, Giancarlo Davoli, Bruno Seghetti, Germano Maccari a quattro, Antonio Savasta ad uno. Nel 1990 Morucci redige un memoriale. Il 26 aprile successivo, Francesco Cossiga, lo invia al ministro degli Interni. Il 7 giugno il memoriale giunge nelle mani del giudice competente per l'inchiesta sul caso Moro. Poche settimane dopo Rosario Priore deposita l'ordinanza di rinvio a giudizio relativa all'inchiesta cosiddetta Moro quater. Il 30 settembre dello stesso anno Morucci e Faranda ottengono la semilibertà dopo aver scontato undici anni di carcere; il 10 ottobre iniziano a lavorare a Roma, presso l'Opera don Calabria, nel quartiere Primavalle. Il 17 novembre 1991 Morucci dichiara al settimanale L'Espresso: "Se nella prigione di Moro è entrata una quarta persona, cosa che a me non risulta affatto, non poteva che appartenere alla ristretta cerchia dei capi Br". Due anni dopo, il 7 ottobre 1993, sia Faranda che Morucci confermano la presenza di un quarto uomo nel rifugio brigatista di via Montalcini. Qualche giorno più tardi, in un'intervista a Giampiero Mughini pubblicata dal settimanale Panorama, Morucci racconta che i brigatisti rossi presenti all'agguato di via Fani non erano sette ma nove, e fra questi c'era anche Rita Algranati. Ultimo elemento di novità riguardante Morucc: secondo documenti inviati in Italia dalla magistratura francese, egli era membro di una vera e propria internazionale del terrore diretta da Ilich Ramirez Sanchez, il famigerato terrorista venezuelano meglio noto alle cronache con il nome di battaglia «Carlos». L'organizzazione si chiamava 'Separat' ed era una sorta di braccio operativo della strategia terroristica del Kgb e dei servizi segreti a esso collegati, in primo luogo la Stasi della Germania Est e l'Stb della Cecoslovacchia. Morucci, come detto, venne arrestato con la sua compagna Adriana Faranda nel maggio 1979, in un appartamento di viale Giulio Cesare, a Roma. L'appartamento in cui venne sorpreso dalla polizia era di proprietà dell'astrofisica Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto. Questi, stando al dossier Mitrokhin, pubblicato molti anni dopo, all'epoca dell'operazione Moro era uno degli agenti del Kgb più importanti in Europa: capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia. torna ad inizio testo

Adriana Faranda — Nata nel 1950, all'inizio degli anni Settanta entra a far parte di Potere operaio. Con Valerio Morucci, Bruno Seghetti e Germano Maccari nel 1973 costituisce il Lap (Lotta Armata Potere Proletario). All'epoca del sequestro di Aldo Moro nel 1978 è membro della Direzione strategica delle Brigate Rosse. "Postina", insieme con Valerio Morucci nei 55 giorni del rapimento, il 17 marzo 1978, viene riconosciuta come la persona che aveva acquistato un berretto da aviatore simile a quello utilizzato dai sequestratori di Aldo Moro in via Fani il giorno precedente. Viene arrestata il 29 maggio 1979 in casa di Giuliana Conforto, insieme a Morucci. E sempre con quest'ultimo Adriana Faranda condivide l'opposizione alla condanna a morte di Moro che la porterà fuori dalle Br per confluire nei gruppi che facevano capo alle riviste Metropoli e Pre-print, collaborando con Franco Piperno, Oreste Scalzone, Lanfranco Pace. Dopo l'arresto Adriana Faranda si schiera nall'area cosiddetta della dissociazione. Nel 1984 dichiara con Morucci in un'intervista a "Il Corriere della Sera" che la "lotta armata" è fallita. A Roma, nell'aula della Corte d'Assise, Faranda ricostruisce, per la prima volta, le varie fasi del sequestro di Aldo Moro, collocando all'ottobre del 1977 la data in cui si decise di agire nei suoi confronti. Nel 1990 invia al giudice competente per l'inchiesta sul caso Moro il memoriale scritto insieme a Valerio Morucci in cui si ricostruiscono le fasi dell'agguato di via Fani in modo dettagliato e si fanno i nomi dei brigatisti presenti sul posto. Nel 1993 nel corso di un'altra deposizione, Adriana Faranda rivela che il cosiddetto "quarto uomo", presente nella prigione di via Montalcini, è Germano Maccari, finito in prigione par altri fatti di terrorismo, ma mai indagato per il caso Moro. Ha scontato sedici anni di prigione ed è libera dal 1995. torna ad inizio testo

Germano Maccari — Nato a Roma nel 1955 muove i suoi primi passi nel mondo della politica nel quartiere di Centocelle, dove fin dal 1969, all'interno del liceo in cui è studente, diventa uno dei leader del cosiddetto movimento. Si interessa di lì in avanti delle lotte per le case e delle altre mobilitazioni di quel periodo. Passato in Potere operaio si occupa di compiti di servizio d'ordine e decide di passare alla lotta armata. Ferisce alle gambe un caporeparto della Fatme nel 1973 e sempre all'interno di Potere operaio con Valerio Morucci, Adriana Faranda e Bruno Seghetti costituisce il Lap (Lotta Armata Potere Proletario). Quando nel 1976 questo gruppo si scioglie confluisce nelle Brigate Rosse. Nel 1978 in occasione del sequestro Moro è quello che per anni viene indicato come il "quarto uomo". In dissidio con Moretti sulla decisione di uccidere l'ostaggio, Maccari esce dalla Br subito dopo il tragico esito dell'operazione. Rimane fuori dalla inchieste per quasi venti anni anche se finisce in carcere per altri fatti di terrorismo. Nel 1993 grazie da una rivelazione di Adriana Faranda confermata poi da Morucci ed anche indirettamente da Mario Moretti in un suo libro intervista, Germano Maccari viene accusato anche per i fatti di via Fani. Maccari inizialmente nega il suo coinvolgimento nel sequestro Moro per poi dopo confessare e rispondere alle domande dei giudici. Condannato a 26 anni in corte d'Assise, muore nel carcere di Rebibbia di Roma il 26 agosto del 2001. torna ad inizio testo

Anna Laura Braghetti — Germano Maccari, coinquilino nei giorni del sequestro Moro, la descrive così: «Era una femminista, una compagnuccia di quartiere, conosciuta, ex fidanzata del Bruno Seghetti che però non ha mai partecipato ad alcuna banda armata prima. È entrata a far parte delle Brigate rosse per comprare un appartamento ed è stata poi partecipe di tutto ciò che successivamente è successo in Italia». È nata a Roma il 3 agosto 1953. Studi all'istituto tecnico, un impiego regolare, entra nelle Brigate Rosse nel 1977 e un anno dopo, insieme al compagno Prospero Gallinari, partecipa al sequestro di Aldo Moro come proprietaria prestanome dell'appartamento di Via Montalcini. Il 5 febbraio 1980 viene notata da una assistente universitaria nei pressi dell'androne della facoltà di Scienze politiche, dove 7 giorni più tardi verrà ucciso Vittorio Bachelet. Il 27 maggio dello stesso anno l'arresto nelle vie del centro di Roma. Il 6 marzo del 1982 il brigatista pentito Antonio Savasta afferma che furono Prospero Gallinari e Anna Laura Braghetti i carcerieri del presidente Dc. Il 10 aprile 1989, a Roma, nel corso del processo alle Br, Francesco Piccioni legge un documento, sottoscritto tra gli altri anche da Laura Braghetti, nel quale si afferma che "fu lo Stato a dichiarare guerra". Nel 1991, sul settimanale L'Espresso, compare una dichiarazione della ex brigatista sul sequestro del presidente democristiano: «Era la nostra risposta al compromesso storico che ingabbiava l'opposizione subordinandola alla Dc». Nel 1994 Braghetti dichiara al sostituto procuratore della Repubblica, Antonio Marini, che Moro scriveva molto, e aggiunge: "Voglio precisare che tali documenti uscivano da via Montalcini solo nelle mani del componente del comitato esecutivo", cioè Mario Moretti. Il 19 giugno 1996, a Roma, nel corso del processo Moro-quinquies, Germano Maccari afferma di essere stato il "quarto uomo" a custodire Aldo Moro, insieme a Prospero Gallinari, Mario Moretti ed Anna Laura Braghetti. Nel 1997 il maresciallo di Ps Giuseppe Mango dichiara al giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni, di aver saputo che durante il sequestro Moro furono fatti accertamenti anche nella zona dove era ubicata via Montalcini, a seguito di segnalazioni fiduciarie pervenute alla squadra e, in particolare, di indicazioni avute sulla Braghetti. L'8 marzo 1998, in un'intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, l'ex brigatista afferma di ricordare che Moretti e Maccari fecero salire Moro nel portabagagli della Renault, poi gli spararono entrambi nove colpi col silenziatore. Qualche giorno dopo, sul quotidiano La Repubblica, Daniele Mastrogiacomo riporta la dichiarazione di un funzionario dell'Ucigos che spiega che il pedinamento di Braghetti iniziò nel corso del sequestro e non dopo la morte di Aldo Moro. Oltre a periodi di detenzione in molti penitenziari italiani, Anna Laura Braghetti ha trascorso quattro anni nel supercarcere di Voghera, in condizioni difficili. Lì ha cominciato a maturare il distacco dalle Br e dal progetto di rivoluzione armata. Nel 1994 ha ottenuto il permesso di lavorare fuori dal carcere, nel 2002 la libertà condizionale. È tra le coordinatrici di un progetto della Comunità europea per l'inserimento al lavoro di ex detenuti. torna ad inizio testo

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