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Roberto bartali.it

Aprile 2002

3 Aprile 2002

ROMA - Non solo la pistola che ha ucciso Marco Biagi sarebbe la stessa dell'omicidio di Massimo D'Antona, come risulta dagli esami di laboratorio svolti dal Ris dei carabinieri. Gli assassini del professore bolognese hanno usato anche la marca di proiettili calibro 9 corto uguale a quella del delitto commesso a Roma tre anni prima. Un altro modo per mettere la stessa firma, un ulteriore dettaglio per collegare i due fatti che segnano l'irruzione delle Brigate rosse nella seconda Repubblica. Sui bossoli trovati sotto i portici di via Valdonica la sera del 19 marzo scorso, quando è stato ammazzato il professor Biagi, c'era il marchio della casa produttrice: la Sellier & Bellot, di nazionalità ceca; le ogive recuperate erano camiciate, con nichelatura color argento. Sul luogo in cui venne ucciso il professor D'Antona, in via Salaria a Roma, non c'erano bossoli; i periti della polizia scientifica lavorarono solo sui proiettili che uccisero il consigliere dell'allora ministro Bassolino, studiando a fondo rigature, solchi, peso e altri particolari di quelle ogive, anch'esse camiciate e nichelate. Attraverso molte prove sono riusciti a risalire al calibro (9 corto), a ipotizzare quattro tipi di arma utilizzata nell'omicidio, e alla marca dei proiettili. «Sellier & Bellot», scrissero all'epoca con la certezza derivante dall'aver effettuato molte ricerche e riscontri. Tre anni dopo, il marchio di quella fabbrica ricompare nell'omicidio Biagi. Ora si cercherà di fare ulteriori accertamenti sulle ogive, per cavarne il maggior numero possibile di dettagli, ma intanto per gli investigatori l'identità delle cartucce utilizzate dagli assassini è un elemento in più per attribuire i due delitti allo stesso gruppo di persone. E per proseguire le indagini. Rispetto al materiale in commercio i proiettili 9 corto della Sellier & Bellot non risultano molto usati; anzi, è un tipo di munizione che non si trova spesso in circolazione, e che non sarebbe in vendita nelle armerie italiane. Negli «anni di piombo» è capitato più volte che gli omicidi commessi dalle Brigate rosse venissero firmati dallo stesso tipo di proiettili, anche se non era un particolare al quale i terroristi dell'epoca dedicassero molta attenzione: tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, il numero degli attentati era talmente elevato che non c'era bisogno di questi dettagli per rimarcare l'autenticità delle azioni. Nel momento in cui le Br tornano sulle scena (prima col delitto D'Antona, a undici anni di distanza dall'ultimo omicidio firmato con la stella a cinque punte, e poi col delitto Biagi) utilizzare la stessa arma e proiettili della stessa marca è un modo per mettersi al riparo da eventuali imitazioni, anche se resta una differenza di comportamento: a Roma i terroristi si sarebbero preoccupati di recuperare i bossoli, mentre a Bologna li hanno lasciati a terra. Se nei laboratori si continua a lavorare su bossoli, ogive e prove di sparo, l'indagine sull'assassinio del professor Biagi prosegue analizzando tutti gli altri elementi a disposizione degli investigatori. Ieri alla Procura di Bologna c'è stata una riunione con i magistrati per esaminare i risultati degli accertamenti sui filmati delle telecamere a circuito chiuso che avrebbero ripreso la vittima poco prima della morte. In particolare, alla stazione di Bologna Marco Biagi sarebbe stato ripreso subito dopo essere sceso dal treno sul quale era salito a Modena, al binario 1 del piazzale ovest. L'attenzione degli investigatori, ovviamente, è tutta centrata sulla possibilità di individuare figure o volti vicini al professore che possano essere collegati ai terroristi che probabilmente l'hanno seguito sul treno e, forse, nel percorso verso casa. Altre video-registrazioni sono state ricavate dalle telecamere sistemate a protezione delle banche che si trovano sulla strada tra la stazione e via Valdonica, e anche in alcune di esse sarebbe rimasta impressa l'immagine del professore; niente di utile invece (dal poco che trapela, ma non ci sono conferme) risulterebbe da quelle piazzate nella zona universitaria, dove si trova l'abitazione del professore. Così come nessun particolare è emerso sul motorino a bordo del quale sarebbero fuggiti due giovani coi volti coperti dai caschi integrali, subito dopo gli spari. Infine una curiosa coincidenza: come era accaduto sul luogo del delitto D'Antona, anche nella strada dove è stato ucciso Biagi aveva lavorato fino alla sera prima, per la realizzazione di un film, una troupe cinematografica. freccia rossa che punta in alto

5 Aprile 2002:

È una donna la supertestimone che ha indicato agli inquirenti alcuni nomi dei presunti ideologi delle nuove Brigate Rosse. Gli investigatori sulle tracce di un gruppo eversivo romano. La teste ha deciso di parlare molti giorni dopo il delitto, perchè spaventata dalle possibili conseguenze; ma alla fine ha elencato i nomi di alcuni personaggi che avrebbero redatto la risoluzione con la quale le br hanno rivendicato il delitto Biagi. Tra questi, ci sarebbe un insospettabile professore universitario che frequenta convegni di studio sul mondo del lavoro e sui conflitti sociali, ma che avrebbe precedenti penali per reati politici. freccia rossa che punta in alto

7 Aprile 2002:

Subito dopo l'assassinio di Marco Biagi, gli investigatori e i funzionari dei Servizi segreti che danno la caccia ai terroristi delle Brigate rosse hanno chiesto aiuto al sindacato, per tentare di capire quello che sta accadendo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro a proposito del ritorno del «partito armato». E il sindacato ha dato piena disponibilità a collaborare. Si sono svolte riunioni nelle quali esponenti di Cgil, Cisl e Uil hanno fornito a detective e 007 il punto di vista di chi, nel mondo del lavoro, sa cogliere e interpretare anche il minimo segnale. Hanno riferito impressioni sul nuovo terrorismo, fotografato la situazione, descritto le reazioni alla violenza strisciante degli ultimi anni culminata con gli spari di Bologna. Per chi deve dare volti e nomi ai brigatisti della Seconda Repubblica è un aiuto importante. Le indagini sugli omicidi Biagi e D'Antona e sugli altri episodi di neo-terrorismo procedono sulla base di dati tecnici e giudiziari (perizie, testimonianze, identikit e altro), ma hanno anche bisogno di individuare e penetrare i «contesti» nei quali i militanti del «partito armato» sperano di contattare o arruolare nuovi adepti, creare consenso intorno al loro progetto. Il famoso «brodo di coltura», come si diceva in altri tempi. E, siccome i bersagli e i testi brigatisti sono incentrati sul mondo del lavoro, e lì che bisogna mettere nasi e orecchie. «Le informazioni che abbiamo ricevuto dai sindacalisti sono molto più approfondite di quelle dei nostri esperti», ammette uno 007. Ma chiarisce che non si tratta di «delazioni» o «spiate» su questa o quella fabbrica, bensì di analisi e ragionamenti fondati su esperienze dirette e quotidiane che aiutano a capire quello che sta succedendo e potrebbe succedere. Così, mettendo insieme gli elementi raccolti e riferiti dai sindacalisti, si scopre che l'«allarme» rispetto a una situazione che poteva far paventare rischi per il futuro risale a prima del delitto D'Antona. Preoccupanti furono giudicati gli scontri apparentemente studiati a tavolino nel febbraio del 1999 durante le manifestazioni in favore di Ocalan. L'assalto organizzato alla sede della Turkish Airlines a Roma, per esempio, era un segnale chiaro. Il sindacato aveva dato il suo appoggio a quella come ad altre cause internazionaliste, e seguì con inquietudine lo sfogo di violenza organizzata ripetutosi in altri appuntamenti di piazza. Episodi esterni alle fabbriche e ai luoghi di lavoro, ma che facevano emergere una predisposizione allo scontro anche duro che non prometteva nulla di buono. Poi ci furono alcuni micro-attentati fino all'improvvisa ricomparsa della stella a cinque punte. freccia rossa che punta in alto

ROMA - È un'ombra che si allunga e e trasforma in un «giallo» la morte, per impiccagione, di Michele Landi, il 36enne tecnico informatico trovato morto giovedì sera dai carabinieri nella sua abitazione di Montecelio di Guidonia. Prima della morte, solo un messaggio e-mail e poi il buio, con il telefonino spento e irraggiungibile. Nessun biglietto, nessuna spiegazione scritta o impressa su un nastro sarebbe stata lasciata dall'uomo. E questo alimenta i dubbi delle prime ore, anche se al momento non sostenuti da elementi di certezza. Dubbi sui quali si allunga l'ombra del delitto D'Antona, quella del delitto Biagi e della modalità usata per rivendicare l'ultimo omicidio: via e-mail. Dubbi che traggono forza da almeno un dato: Michele Landi, considerato una sorta di genio del computer e tra i massimi esperti nel campo in Italia, era stato nominato consulente di parte nel caso D'Antona: a richiedere la sua opera professionale era stato Alessandro Geri, il giovane romano accusato di aver avuto un ruolo, come telefonista, nelle fasi di rivendicazione dell'omicidio ad opera delle Brigate Rosse del consulente del ministero del Lavoro, avvenuto a Roma il 20 maggio 1999. Pochi giorni fa, Landi aveva parlato da esperto informatico anche in merito all'omicidio di Marco Biagi. Landi, intervenendo a una trasmissione radiofonica di Radiouno, esprimeva la convinzione che fosse tecnicamente possibile risalire al mittente informatico di chi aveva spedito via Internet la rivendicazione del delitto Biagi. Contradditorie le informazioni sulla personalità e sugli ultimi giorni di vita di Landi raccolte dagli investigatori. Per alcuni, l'esperto informatico di recente era diventato un po' più solitario del solito, Altri, invece, ricordano che Landi, nel corso di una serata in un locale pubblico avrebbe svelato di avere in serbo una grossa novità, di «aver fatto una grossa scoperta», senza però meglio specificarne l'argomento e i contenuti. freccia rossa che punta in alto

8 Aprile 2002:
(Liberazione)

- Una morte davvero misteriosa quella di Michele Landi, il superesperto di informatica trovato impiccato l'altro ieri notte nella sua casa a Montecelio di Guidonia in provincia di Roma. Una morte misteriosa e, per certi aspetti, anche inquietante in virtù delle molteplici attività svolte in passato dal defunto. Michele Landi, infatti, aveva partecipato alle indagini per l'assassinio di Massimo D'Antona su incarico della difesa al fine di effettuare una perizia sul computer di Alessandro Geri, il giovane arrestato (e poi scarcerato) con l'accusa di avere rivendicato per le Br l'omicidio del consigliere del ministero del Lavoro ed aveva svolto perizie per le procure di Palermo e Roma. Nel Tribunale della Capitale, Landi svolgeva il ruolo di consulente per i tabulati telefonici delle Brigate rosse. Dopo l'omicidio di Marco Biagi, Landi aveva dichiarato nel corso di un intervista rilasciata a Radio Rai che era possibile rintracciare in poche ore il luogo di origine da dove era stata inviata l'e-mail con la quale le Brigate rosse rivendicavano l'assassinio del professore bolognese. Landi, inoltre, era consulente della televisione satellitare araba che ha sede a Roma e pare che lavorasse anche per i servizi segreti. Originario di Pisa, dove era nato 36 anni fa, Michele Landi lavorava come docente per la scuola di formazione manageriale Luiss Management, dove era responsabile della divisione informatica e anche di un corso di formazione del Gruppo Anticrimine Tecnologico (Gat) della Guardia di Finanza. «Il suo motto era "facciamo cose", ed era il segnale di un impegno incredibile che non conosceva soste - ha dichiarato il colonnello Umberto Rapetto, comandante del Gat - Io stesso lo avevo proposto pochi giorni fa come coordinatore della task force che sta formando il ministro dell'Innovazione Tecnologica, Lucio Stanca, per cercare di rendere sicuro il Web, la rete, Internet. Era stato ufficiale di artiglieria, figlio di un militare dell'aeronautica, in possesso lui stesso di un brevetto da pilota, paracadutista provetto amante della barca a vela - ha aggiunto il colonnello Rapetto - aveva il coraggio di una persona giovane che non sarebbe invecchiata mai. Nei primi anni '90 era stato direttore della rivista Micropersonal computer edita dalla Voltaire, un vero e proprio punto di riferimento per gli appassionati del settore. Non credo che una persona come lui si possa essere tolta la vita - ha concluso Rapetto - le sue responsabilità non l'opprimevano, anzi erano motivo di spinta a fare sempre di meglio». E al suicidio non credono la fidanzata, tanto meno gli amici ed i colleghi i quali hanno dichiarato che il Landi, nonostante da mesi non percepisse lo stipendio dalla Luiss Management, non avrebbe dato segni di depressione negli ultimi tempi. «Aveva rapporti con i servizi investigativi della Criminalpol ed aveva avuto conoscenza di molte indagini - spiegano ancora i colleghi della Luiss Management - ma non ha mai manifestato preoccupazione per questo». Il corpo del superesperto informatico è stato scoperto dai carabinieri della compagnia di Tivoli (Rm) giovedì sera intorno alle 22 su segnalazione della fidanzata la quale, arrivata a Montecelio, ha trovato la porta chiusa, la luce accesa e la finestra dell'appartamento aperta. Landi aveva al collo un cavo legato alla scala che porta al piano superiore della villetta. Gli investigatori non hanno fatto alcun commento su alcune stranezze che sarebbero state trovate al momento del rinvenimento del corpo. A quanto pare, le gambe di Landi non presentavano il gonfiore che sopravviene alcune ore dopo l'impiccagione. Segno quest'ultimo che la morte possa essere avvenuta poco tempo prima del ritrovamento. Eppure, l'ultimo contatto che Landi ha avuto con l'esterno risale alle 4,30 di giovedì quando ha inviato una e-mail ad un amico, dopo di che ha spento il cellulare e non ha più risposto alle chiamate del telefono di casa. Di certo c'è che il medico legale intervenuto sul posto ha atteso diverse ore prima di far rimuovere il cadavere. Intanto, i carabinieri hanno posto i sigilli all'abitazione e sequestrato vari documenti, due computer portatili e il computer fisso trovati in casa. Materiale che è stato consegnato al Racis, il reparto investigazioni speciali dei carabinieri di via Aurelia a Roma. L'indagine per il momento sembra orientata sulla pista del suicidio, ma ci sono tutti i presupposti perché questo caso possa trasformarsi in uno dei tanti misteri d'Italia. freccia rossa che punta in alto

(L'Espresso) - In principio taceva anche radio carcere. Nemmeno le lunghe chiacchierate intercettate da centinaia di microspie sembravano aiutare a disegnare il ritratto dei nuovi brigatisti. Nel 1999, pochi mesi dopo l'attentato fatale a Massimo D'Antona, che ha preceduto di tre anni l'omicidio del giuslavorista Marco Biagi, persino gli irriducibili non trovavano risposte ai loro interrogativi. «Noi non sappiamo, in questi cinque anni tra la Nato (l'attentato dinamitardo al Nato Defence College di Roma del 13 gennaio del '94, ndr.) e D'Antona, cosa sia successo», ripetevano nelle celle del supercarcere di Latina le ragazze invecchiate delle Br. Quelle che appena potevano si stringevano, per discutere del mondo di fuori, intorno a Maria Cappello: la terrorista del "comitato esecutivo" della stella a cinque punte arrestata nell'88 per l'assassinio del senatore Dc Roberto Ruffilli. E neanche le cimici nascoste 500 chilometri più a nord, nei muri di cemento armato della prigione di Novara, sembravano aggiungere molto. «Questi qui che hanno fatto l'operazione D'Antona (...) quando sono entrato in galera, questi erano dei "raccordi"(...) poi so' cresciuti, so' cresciuti», spiegava concitato a un compagno di Prima Linea, un Br doc come Franco La Maestra. Nella mente dei detective di polizia e carabinieri era però rimasta quella strana parola: raccordi. A tradurla ci avevano poi pensato gli investigatori più anziani. Secondo la Direzione strategica n. 2 del 1975, un lungo documento che può essere a ragione definito una sorta di vademecun del perfetto terrorista, i raccordi sono infatti i militanti che compongono le «reti di propaganda e appoggio». Ecco, oggi le indagini sull'assassinio di Biagi, il collaboratore del ministro Roberto Maroni ucciso a Bologna martedì 19 marzo, ricominciano da qui. Dai raccordi. Secondo quanto risulta a "L'Espresso" sono una ventina i simpatizzanti Br sui quali si accentrano in questi giorni le attenzioni degli investigatori. Mentre in stretto contatto con le polizie francesi, tedesche, belghe, svizzere e spagnole continua la caccia a 8 «irreperibili» sospettati di far parte a pieno titolo della cosiddetta «struttura estera» delle Brigate Rosse Pcc: Carla Vendetti, Simonetta Giorgieri, Enzo Calvetti, Mario Galesi, Ciro Di Pinto, Guido Minonne, Nadia Desdemona Lioce e Giuliano De Roma. Carabinieri e polizia guardano in particolare alla Confederazione elvetica. Nella Rote Fabrik di Zurigo, nel maggio del 1997, si è tenuta una fitta serie di incontri tra militanti italiani delle Br e tedeschi della Raf. Dietro le quinte di questa manifestazione pubblica si sarebbe parlato esplicitamente di una riunificazione tra i due movimenti eversivi. Due anni dopo, la Raf sembrava però uscita di scena con un comunicato che annunciava il proprio autoscioglimento. Ma nel luglio del '99, 60 giorni dopo l'uccisione di D'Antona, ecco il colpo di scena: una rapina da un milione di marchi compiuta a Duisburg ne ha segnato il clamoroso ritorno. Secondo gli investigatori quel colpo dimostra come il Fronte antimperialista internazionale (al quale si fa riferimento in tutte le rivendicazioni terroristiche degli ultimi anni) è in piena attività. Il caso esemplare è quello rappresentato da Nicola Bortone, un Br casertano arrestato il 10 marzo a Zurigo. Bortone, latitante dal 1989, si era reso irreperibile nel '92 dopo aver scontato tre anni di carcere in Francia. Da qui era riparato nella Confederazione dove per anni ha collaborato a una rivista in lingua tedesca. Nonostante questo, tre settimane fa si è dichiarato «militante delle Br». Dalla Svizzera, Bortone veniva spesso in Italia. I carabinieri, senza arrestarlo, lo hanno intercettato nel maggio del 2000 nella metropolitana di Milano mentre scambiava documenti con un trentaseienne che gravitava intorno a Iniziativa comunista, un gruppo extraparlamentare fuoruscito nel '95 da Rifondazione comunista. A Zurigo, Bortone sembrava essersi rifatto una vita. Dopo la separazione da Simonetta Giorgieri conviveva con una nuova ragazza e teneva stretti rapporti con Andrea Stauffacher, 49 anni, leader dei movimenti Rote Hilfe International (soccorso rosso internazionale) e del Revolutionärer Aufbau (costruzione rivoluzionaria). La Stauffacher, nel luglio del '99, venne fermata sul treno Zurigo-Milano perché in possesso di due fogli con intestazione Br e del volantino che rivendicava l'omicidio D'Antona. Un mese prima a Milano Andrea Stauffacher aveva partecipato alla giornata internazionale del rivoluzionario prigioniero organizzata dalla Asp, l'Associazione di solidarietà proletaria considerata un'emanazione dei Carc (comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo), un movimento fondato dall'editore milanese Giuseppe Mai, fuggito all'estero nel '99 pur non essendo ricercato (l'inchiesta a suo carico è stata anzi archiviata). Tra i documenti pubblicati nel sito internet zurighese del Revolutionärer Aufbau, gli investigatori hanno anche ritrovato due comunicati del Carc di Modena e dell'Asp di Napoli nei quali la questione della carcerazione preventiva e quella dei reato di associazione sovversiva viene affrontata quasi con le stesse parole poi utilizzate nella rivendicazione dell'assassinio di Marco Biagi. Ma l'analisi del documento, secondo gli esperti, riserva anche altre sorprese. C'è infatti un'assoluta coincidenza con termini e ragionamenti utilizzati nei propri comunicati sia dal Npr sia dai Nipr. Il primo gruppo è autore del fallito attentato del luglio 2000 alla sede milanese della Cisl, rea di aver detto sì al patto per il lavoro ideato proprio da Biagi per il Comune di Milano. Il secondo ha invece fatto esplodere nel 2001 un ordigno all'Istituto affari internazionali di Roma. Ma non basta. Ciò che ha sorpreso nella rivendicazione dell'omicidio Biagi è la presenza di una sorta di Bignami del marxismo-leninismo forse introdotto per spiegare ai militanti più giovani la filosofia delle Br. Se così si può chiamare. freccia rossa che punta in alto

10 Aprile 2002:

ROMA - Sollecitato dai giornalisti e da uno stillicidio di indiscrezioni apparse in questi giorni sulle indagini sulle Br, sugli omicidi D'Antona e Biagi, il ministro dell'Interno, Claudio Scajola, dopo aver invitato «a una maggiore riservatezza» da parte di chi indaga, ieri ha voluto precisare che «tra le nuove e le vecchie Br c'è continuità», e che le attuali Brigate Rosse probabilmente hanno «basi e appoggi anche all'estero». Naturalmente Scajola non si riferiva ad altre sigle terroristiche straniere ma agli «irreperibili», agli ultimi protagonisti di quella stagione delle Br che si concluse alla fine degli anni `80. Non è una novità che gli investigatori dell'Antiterrorismo puntino anche su questa «colonia» estera delle Br per risalire ai mandanti e agli esecutori degli omicidi del professore Massimo D'Antona e di Marco Biagi, convinti che su questo nocciolo duro ed esiguo di vecchi brigatisti si siano aggregate nuove (ridotte nel numero) leve di terroristi. In questi giorni viene valutata dagli investigatori la testimonianza che in via Adda, una strada vicino a via Salaria, il giorno prima dell'omicidio D'Antona, il 19 maggio `99, fu riconosciuto anche «Vittorio», il nome di battaglia di Enzo Calvitti, uno degli irreperibili emigrati in Francia. E anche l'identikit di una donna presente nel commando entrato in azione in via Salaria, assomigliava a un'altra vecchia militante delle Br, irreperibile anche lei, Simonetta Giorgieri. Il ministro Scajola ieri ha voluto rassicurare che le indagini «stanno dando frutti che vanno percepiti, seppure esili». Non è l'annuncio di imminenti e clamorose svolte nelle inchieste romane e bolognesi ma la conferma che dopo tre anni gli investigatori hanno imboccato una pista che si annuncia fruttuosa. Dunque gli appoggi e le basi all'estero delle nuove-vecchie Brigate Rosse. Segnali di questa continuità sono stati confermati proprio in questi giorni, a Roma e a Milano, nel corso di processi a diversi terroristi che, dalle gabbie degli imputati, hanno rivendicato i due omicidi D'Antona e Biagi. Se fosse confermata, la presenza di Enzo Calvitti in via Salaria rappresenterebbe una novità nella geopolitica delle vecchie Br che il 19 marzo del 1982 annunciarono una «ritirata strategica». Calvitti, infatti, che negli anni `83-'84 faceva parte della direzione strategica delle Br, dopo la scissione interna, si ritrovò nel gruppo cosiddetto della «seconda posizione», cioè di quei militanti per i quali «la lotta armata non assumeva più un ruolo centrale ma era soltanto uno degli strumenti necessari alla preparazione delle masse verso la guerra rivoluzionaria finale». Calvitti venne arrestato in Francia nell'ottobre del 1989 e dopo una breve carcerazione si è dato latitante. Nel 1992 è stato condannato dalla Corte d'assise d'appello di Roma a 18 anni di reclusione per «banda armata, associazione sovversiva». In questi anni di latitanza, gli «irreperibili» francesi avrebbero ricostituito un gruppo operativo, in contatto con il «circuito carcerario», con gli irriducibili. Il 10 marzo scorso, a Ginevra, proprio uno degli ex «militanti rivoluzionari» Nicola Bortone è stato arrestato dall'Antiterrorismo. E si è dichiarato «militante delle Br». Nel documento di rivendicazione dell'omicidio Biagi, gli analisti dell'intelligence hanno ritrovato un riferimento alla rivendicazione congiunta delle Br italiane e della Raf tedesca dell'attentato al sottosegretario Tyetmaier avvenuto a Francoforte nel settembre del 1988. Il riferimento è anche alla costituzione del «Fronte antimperialista combattente», parola d'ordine presente in vari documenti elaborati in questi ultimi anni da diverse sigle terroristiche: le Br, gli Nta e i Nipr. freccia rossa che punta in alto

17 aprile 2002 (La Nuova Sardegna) - GLADIO: I VERTICI SAPEVANO DEL RAPIMENTO MORO PRIMA CHE ACCADESSE?

I vertici di Gladio sapevano che Moro sarebbe stato rapito dai brigatisti Un documento proverebbe che Stay Behind, due settimane prima dell'agguato di via Fani, aveva attivato i suoi agenti in Medio Oriente per trovare un contatto con i terroristi rossi italiani di Piero Mannironi ROMA. Nuovi fantasmi emergono da quell'abisso oscuro che è il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Dopo 24 anni, la tragedia umana e politica del presidente della Democrazia cristiana resta infatti una capitolo ancora dolorosamente aperto nella storia del nostro Paese. L'ultima clamorosa novità è che qualcuno, negli apparati dello Stato, sapeva che le Brigate Rosse volevano rapire Moro. Ma nessuno impedì il sanguinoso agguato di via Fani. La notizia, per dire la verità, è emersa qualche anno fa dall'oceano del web, in un sito costruito da un ex agente segreto del Sid, Antonino Arconte. Nome in codice G.71, Arconte faceva parte di una struttura riservatissima, la Gladio delle centurie, che aveva compiti operativi oltre confine: trecento uomini superaddestrati, che si muovevano all'interno delle strategie della Nato. Arconte, sardo di Cabras, raccontò la sua storia di soldato e di 007 sul sito "http://www.geocities.com/Pentagon/4031". Arruolatosi nel 1970 a soli 17 anni, partecipò a una selezione per entrare nei corpi speciali dell'Esercito. Passò poi al Sid (Servizio informazioni della Difesa), allora guidato dal generale Vito Miceli. Così cominciò la sua avventura in un mondo sotterraneo e silenzioso, muovendosi per tutto il mondo con la copertura di uomo di mare della marineria mercantile. Intervistato dalla Nuova nel novembre del 2000, Arconte disse: "Ho deciso di parlare, di raccontare chi sono veramente e cosa ho fatto per il mio Paese e per la democrazia, perché mi sento in pericolo. Molti, troppi, di noi sono morti. Chi in missione, chi in strani incidenti e chi è stato perfino "suicidato". La verità è che ci vogliono cancellare, vogliono cancellare la nostra storia e fare in modo che di noi non resti più la memoria". E proprio in quella lunga intervista, l'agente G.71 parlò di una sua missione in Medio Oriente, che si intrecciò con la tragedia di Aldo Moro. Ecco cosa disse Arconte: "Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioé, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Arconte non conosce i retroscena. "Per me è un mistero. Io dovevo solo effettuare la consegna. D'altra parte, il mio lavoro era quello di fare da istruttore militare. Addestravo "ribelli" e profughi in zone calde. Soprattutto in Africa". Dopo le rivelazioni di G.71, la procura della Repubblica di Roma ha aperto un'inchiesta, della quale, però, non si sa nulla. Proprio in queste settimane, Arconte ha finito di scrivere un libro, pubblicato su internet da una casa editrice americana, al quale si può accedere attraverso il sito, costruito dall'agento segreto di Stay Behind. E, rispetto alle cose già raccontate, la novità è che nell'e-book viene pubblicato il documento (che doveva essere distrutto immediatamente) proveniente dal ministero della Difesa e che Arconte consegnò al gladiatore G.219. All'operazione avrebbe dovuto sovrintendere il gladiatore G.216. Il primo è il colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, che venne trovato impiccato nella sua abitazione romana nel 1995. Una morte molto strana, archiviata come suicidio, ma che non ha mai convinto i familiari dello 007. G.216, invece, è il colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti militari italiani in Medio Oriente. Giovannone, conosciuto tra le "barbe finte" come "Stefano D'Arabia" o come "Il Maestro", era, guarda caso, un uomo fidatissimo di Aldo Moro, del quale condivideva la linea filopalestinese. E dalla prigione delle Br Moro chiese l'aiuto di Giovannone. Scrivendo a Flaminio Piccoli (allora presidente dei deputati Dc), infatti, aveva chiesto di far "intervenire il colonnello Giovannone, che Cossiga stima". Nella missiva indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Erminio Pennacchini aveva poi scritto: "Vorrei che comunque Giovannone fosse su piazza". E qualcosa Giovannone fece. Ma i risultati, purtroppo, arrivarono troppo tardi. Quattro giorni prima dell'uccisione di Moro, infatti, il leader palestinese Yasser Arfat dichiarò alle agenzie: "A nome del popolo e dei rivoluzionari palestinesi, e a nome mio personale, chiedo insistentemente ai rapitori di Aldo Moro di liberarlo perchè siano salvaguardate l'unità del popolo italiano, la democrazia in Italia, e perché la sua detenzione non possa essere utilizzata dai nemici della libertà, della pace e dell'umanità". Sulla vicenda è intervenuto ieri l'ex presidente della commissione Difesa della Camera, Falco Accame. "Moro e la scorta si potevano salvare, ci sono nuovi documenti che mettono sotto una nuova luce la questione del rapimento del presidente della Dc - ha detto -. Perchè, viene da chiedersi, la X divisione non avvertì l'onorevole Moro e le forze dell'ordine il 2 marzo? Si poteva evitare la prigionia di Moro e la morte dei suoi agenti di scorta? Una domanda quasi incredibile, surreale, da non credere, se non emergesse da un documento a "distruzione immediata" che però non venne distrutto dal latore, e che ora riemerge come da un profondo abisso". Dell'esistenza del documento, è stato informato il procuratore militare di Roma Intelisano. freccia rossa che punta in alto

27 Aprile 2002: (tratto da Misteri d'Italia.com) - DELITTO BIAGI: L'INCHIESTA LANGUE, QUELLA SULLA SCORTA PURE

- A oltre un mese dall'omicidio, l'inchiesta sul caso Biagi sembra essere già finita in un vicolo cieco. Proprio come l'inchiesta sul delitto D'Antona. L'asse investigativo Bologna-Roma sembra essersi arrestato ai primi, azzardati proclami sull'identità dell'arma che avrebbe assassinato i due consulenti del ministero del Lavoro (ora del Welfare). Identità dell'arma di cui non si è più avuta alcuna notizia e tantomeno alcuna conferma ufficiale. Per l'omicidio Biagi resta solo un approssimativo identikit, un ipotetico supertestimone - di cui la procura ha però smentito l'esistenza - e null'altro. L'inchiesta procede quindi a tentoni e non sembra passibile di sviluppi. Molta attenzione invece, da parte della procura di Bologna, sull'inchiesta parallela relativa alle responsabilità in merito alla decisione di togliere al docente bolognese la scorta che pure gli era stata assegnata. La procura - su sollecitazione del legale della famiglia Biagi, l'avv. Guido Magnisi, indaga su eventuali comportamenti omissivi, anche se il ministro dell'Interno Claudio Scajola ha già fatto sapere che nella "disattivazione della tutela" nei confronti di Marco Biagi "quelli che emergono dagli accertamenti dell'inchiesta non sono certamente profili di responsabilità penale o disciplinare". L'avv. Magnisi aveva presentato in Procura un atto scritto che accompagnava la disponibilità della famiglia a far accedere ai dati del personal computer del professore. Tra l'altro dal pc del docente è emerso il testo di una lettera - non si sa a chi indirizzata - scritta su un floppy disk da Biagi il 23 settembre (lo stesso giorno in cui aveva ricevuto l'ultima di un serie di minacce telefoniche): la lettera concludeva sottolineando l'urgenza di avere una tutela "avendo già informato inutilmente le autorità". L'inchiesta avviata dalla procura di Bologna potrebbe ipotizzare l'omissione di atti ma, secondo alcune interpretazioni, potrebbe arrivare a contemplare anche il reato di omicidio colposo. freccia rossa che punta in alto

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