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Roberto bartali.it

Marzo 2005

10 marzo 2005 (FILIPPO CECCARELLI - La Repubblica) - LA VERITÀ DI ANDREOTTI "PAOLO VI TRATTÒ PER MORO"
"Il Papa fece un tentativo per un riscatto con l'accordo di tutti i partiti"
La verità di Andreotti: "Paolo VI trattò per Moro"
Il senatore: "Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace, era un millantatore"

ROMA - A proposito di riscatti. E del caso Moro, che a 27 anni distanza continua non solo a fare notizia, ma anche a suscitare interrogativi: "E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore". Così ieri in Senato Giulio Andreotti, a conclusione del suo intervento: "Era necessario da parte mia cogliere questa occasione - ha spiegato - per precisarlo qui questa sera".
Si sapeva? Sì, si sapeva che nel corso del sequestro il Vaticano si era variamente attivato, d'intesa con il governo italiano, che a sua volta poteva contare sul tacito accordo del Pci, per pagare una grossa somma (pare cinque miliardi di allora), anche se non si è mai capito chi eventualmente avrebbe cacciato il denaro, se l'Italia o la Santa Sede.
Più interessante - almeno per gli appassionati di una materia che più ingarbugliata non si potrebbe - è la questione del "tramite", cioè della persona che si sarebbe proposto come mediatore delle Br, e che Andreotti, che ieri ha sottolineato il valore della vita umana, dice essersi rivelato inefficace o peggio un impostore.
A questo proposito, sempre con beneficio d'inventario e certo a rischio di saturazione, occorre ricordare che il Vaticano affidò certamente una possibile mediazione ai telefoni della Caritas Internationalis, presso cui si recò invano l'onorevole Guido Bodrato. Un'altra iniziativa di cui si trova qualche traccia - un'intervista di Andreotti al Giornale nel settembre 2003 - riguarda, a Milano, un innominato cappellano delle carceri messo sull'avviso da un detenuto, pure innominato. E ancora un altro contatto potrebbe aver coinvolto un secondo sacerdote, pure milanese, a nome padre Zucca, depositario di notizie forse avute in confessionale, forse no. Si è poi recentemente parlato, da parte dell'ex brigatista rosso Alberto Franceschini, di un rapporto intercorso in due occasioni (Sossi e Moro) tra le Br e un intellettuale cattolico "ben introdotto in Vaticano", Corrado Corghi, amico personale di Che Guevara e Fidel Castro. Resta però un'ultima ipotesi. Presentando nel maggio dello scorso anno il libro di Maria Fida Moro "La nebulosa del caso Moro" (Selene ed.), Andreotti ha raccontato che la trattativa vaticana doveva concludersi con il pagamento di un forte riscatto proprio la mattina del 9 maggio. Ma i rapporti con il preteso mediatore erano cominciati ben prima. Questi si era accreditato anticipando il falso comunicato numero 7, per intendersi quello del Lago della Duchessa. Andreotti ricordò che le indagini indicarono in Tony Chichiarelli l'autore di quel documento fasullo e di altri. Un personaggio davvero singolare: pittore, nonché falsario della banda della Magliana, fra gli autori del colpo miliardario alla Brink's Securmark, possibile (sempre a detta di Andreotti) collaboratore dei servizi segreti, poi ucciso in circostanze misteriose nel 1984. Era lui l'incapace o il millantatore? freccia rossa che punta in alto

14 marzo 2005 (ANSA) - MITROKHIN: GUZZANTI (FI), TERRORISMO ERA QUINTA COLONNA URSS

I terroristi italiani rossi e neri erano una quinta colonna dell' Urss, che doveva agevolare l' avanzata delle armate del Patto di Varsavia. I sovietici avevano individuato i dirigenti collaborazionisti per l' Europa, i cui nomi sono nelle parti inedite del dossier Mitrokhin. E' questa la ricostruzione storica fatta oggi a La Spezia dal senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti, nel corso di un convegno sul dossier dell' archivista del KGB.
In questo scenario il presidente della commissione parlamentare sul dossier ha inserito anche il caso Moro, "rapito dalle BR su incarico dei sovietici per carpirgli segreti militari", e l' attentato al papa, "il cui appoggio a Solidarnosc metteva a rischio il paese che doveva servire da base per l' invasione dell' Europa".
"Tra la fine degli anni Settanta e l' inizio degli Ottanta - ha spiegato Guzzanti - l' Urss preparo' i piani per un attacco improvviso all' Europa occidentale. Questi piani furono mostrati nel '91 da Gorbaciov a Cossiga, all' epoca presidente della Repubblica, e sono stati pubblicati in diverse opere di storia militare. L' Unione sovietica avrebbe lanciato bombe atomiche per una potenza pari a 1.050 volte la bomba di Hiroshima e avrebbe invaso l' Europa con 180 divisioni corazzate".
L' Italia secondo Guzzanti sarebbe stata invasa dal Brennero, violando la neutralita' austriaca, da un' armata ungherese e cecoslovacca. "Le direttrici dell' avanzata - ha detto il parlamentare - coincidono con le citta' dove si sviluppo' piu' forte il terrorismo: Trento, Bergamo, Padova, Udine, Reggio Emilia, Milano e Torino. Non solo il terrorismo rosso, ma anche quello nero (come rivelarono i servizi jugoslavi all' ammiraglio Martini) erano gestiti dai sovietici. La funzione dei terroristi era deprimere e disarticolare la societa' italiana, per ostacolare la reazione all' avanzata sovietica".
Secondo il piano, l' Europa doveva essere conquistata in quindici giorni. A quel punto, i sovietici avrebbero messo al potere una classe dirigente collaborazionista. I nomi sono contenuti nella parte del dossier Mithrokin che non e' ancora stata resa pubblica. "L' archivista del KGB ha portato in Occidente 300.000 schede - ha detto Guzzanti - Gli inglesi che la hanno ricevute ne hanno date all' Italia solo 261, il cosiddetto dossier Impedian. Tutto il resto e' sparito. La mia idea e' che contenesse l' intera struttura del governo collaborazionista".
Secondo il parlamentare, Aldo Moro fu rapito dalle BR su incarico dei russi, che volevano carpirgli informazioni militari. "Moro - ha detto - era il fondatore dei servizi segreti italiani e il referente degli americani. Fu interrogato per 55 giorni, con un andirinvieni di corrispondenza, quindi fu ucciso". A far saltare i piani di invasione secondo Guzzanti fu l' elezione di papa Wojtyla: "La base di partenza delle 180 divisioni doveva essere la Polonia. L' appoggio del pontefice a Solidarnosc metteva a rischio questa base. Di qui il tentativo dell' Urss di uccidere il papa". freccia rossa che punta in alto

15 marzo 2005 (SIMONETTA FIORI, La Repubblica) - TRATTATIVE PER SALVARE MORO: NUOVI DOCUMENTI.

Le trattative segrete per salvare lo statista Emergono nuovi documenti. Lo storico Agostino Giovagnoli ha consultato le carte di molti notabili DC: si teorizzò addirittura una fermezza flessibile. Il giudizio severo di Cossutta e le aperture di Terracini criticate da Berlinguer. Benigno Zaccagnini in privato si diceva pronto a tentare qualcosa per l'amico Se non fu liberato è perché le Br non vollero cogliere i segnali di apertura. "Mi domando se stiamo facendo veramente tutto per uscire da questa tragica situazione". Il dubbio lacerante espresso a porte chiuse da Zaccagnini il 13 aprile del 1978, al termine d'una riunione di direzione, sintetizza i sentimenti contrastanti che animarono il vertice democristiano lungo i cinquantacinque giorni del sequestro Moro. Una vicenda che ha segnato la storia della Repubblica, ma che finora non era stata raccontata con gli strumenti propri della storiografia. Si è accinto all'opera, in un volume che uscirà a fine marzo dal Mulino (Il Caso Moro. Una tragedia repubblicana, pagg. 382, euro 22), lo storico Agostino Giovagnoli, studioso di ispirazione cattolica, allievo di Pietro Scoppola e autore di originali interventi sugli anni Settanta. Fondato su un'ampia mole di materiali anche inediti - fonti giudiziarie e parlamentari, le carte della Democrazia Cristiana, i verbali del Pci, gli archivi personali di protagonisti quali Giulio Andreotti e Amintore Fanfani - il libro ha il merito di fornire spessore documentale a una vicenda rimasta per certi versi indefinita, ridimensionando la distanza comunemente accreditata tra fautori della fermezza e sostenitori della trattativa. Un tema, questo della diplomazia clandestina con i terroristi, oggi drammaticamente riproposto dalla guerra in Iraq. Pur nella diversità delle posizioni, sostiene Giovagnoli, le differenze tra i due "partiti" si fecero nel tempo meno marcate. "Le ragioni dell'etica influirono sulle dinamiche della politica. Nella Democrazia Cristiana si cominciò a riflettere su come aprire trattative che non sembrassero tali o compiere gesti umanitari che risultassero però politicamente accettabili alla Brigate Rosse. E anche nel Pci si affacciò l'esigenza di tenere conto dell'appello democristiano a una maggiore flessibilità". In sostanza - è la tesi di Giovagnoli - se Moro non fu salvato è perché le Bierre non vollero o non furono in grado di percepire tutti i segnali di apertura che venivano dalle file scudocrociate. La logica della violenza finì per prevalere sulle ragioni della politica. In questo senso la ricostruzione degli eventi contrasta con una memoria diffusa che attribuisce al Biancofiore un ruolo ambiguo o quanto meno confuso. "Le conoscenze acquisite finora", sostiene lo studioso, "indicano che Moro è morto perché le Brigate Rosse avevano deciso di ucciderlo". Figura emblematica della posizione espressa dalla formula "fermezza flessibile" (tipico stilema democristiano fondato su un ossimoro) fu quella di Benigno Zaccagnini, fin da principio lacerato tra la difesa della vita di Moro e la necessità di non piegare lo Stato democratico alle richieste delle Brigate Rosse. I documenti consultati da Giovagnoli mostrano il segretario della Dc privatamente proteso alla salvezza dell'amico e disponibile a tutte le iniziative possibili, pubblicamente fermo nella linea dell'intransigenza. Un atteggiamento simile, pur con qualche significativa differenza, è presente anche in altri protagonisti, da Forlani a Cossiga, da Zamberletti a Donat-Cattin, da Fanfani - il più trattativista in casa democristiana - allo stesso Flaminio Piccoli, il quale, pur contrapponendosi al fervore fanfaniano, nell'ultima fase non ostacola il tentativo di dialogo con le Bierre. Già nella Direzione del 16 e 17 marzo, all'indomani del sequestro, si comincia a discutere un'ipotesi ritenuta probabile: la richiesta di scambiare Moro con qualche brigatista detenuto. Giovagnoli valorizza "il sorprendente intervento" di Taviani, il quale nei giorni del rapimento del giudice Sossi s'era distinto per la più assoluta intransigenza. Questa volta, invece, sostiene apertamente che "non si può avere eguale atteggiamento per un uomo insostituibile come Moro". Ma è alla fine di marzo che nelle sedi riservate s'infittisce la discussione sulla possibilità dello scambio tra prigionieri. Annota Giovagnoli: "Le prime reazioni furono possibiliste, specie intorno a Zaccagnini. Tra i favorevoli figura Riccardo Misasi. In seguito il segretario avrebbe accettato il rifiuto dello scambio. Fu probabilmente Piccoli a far rimandare ogni pronunciamento immediato". Interessante la discussione che parallelamente si svolge a Botteghe Oscure. Seppure uniti nel segno della fermezza, al giudizio assai severo di Cossutta (che critica "la debolezza umana di Moro") reagisce Natta: "È bene non dirle queste cose, perché proprio nel nostro movimento uomini illustri sono stati costretti a terribili confessioni". Controcorrente la posizione di Umberto Terracini, favorevole al dialogo con i brigatisti. Un orientamento divenuto pubblico nel cosiddetto "appello dei vescovi" pubblicato da Lotta Continua. Nel doppio binario di "tattica possibilista" e "strategia della fermezza" prosegue intanto la linea della Dc, che in un incontro al vertice il 30 marzo rinsalda il patto con il Pci, ma senza mai escludere "qualche contatto" con i terroristi. Passano quattro giorni e in una nuova riunione tra i segretari dei partiti di maggioranza, cui partecipano anche Andreotti e Cossiga, Zaccagnini dice di condividere la linea della fermezza, "ma non su tutto": il cuore del segretario batte decisamente per la salvezza del prigioniero. Sempre in questa sede, il premier non esclude uno scambio in denaro: nessuno si oppone. Scrive Giovagnoli: "Tutti i leader dei partiti di governo erano dunque favorevoli al pagamento di un riscatto, anche se era evidente che i brigattisti lo avrebbero utilizzato per finanziare ulteriori atti di terrorismo". Seguiranno di lì a poco i tentativi di mediazione esercitati da Amnesty International - appoggiata segretamente da Fanfani - e soprattutto dal Vaticano, con il sostegno di Andreotti. Più tardi l'appello della Caritas Internationalis, dietro cui si celano Fanfani e il premier. Tutti rimasti senza esito. La diplomazia sotterranea è destinata a infittirsi ai primi di maggio, dopo la condanna a morte del prigioniero. L'intensa attività di tessitura tra i partiti di maggioranza e soprattutto Bettino Craxi, assurto a paladino della trattativa, ha lo scopo di verificare se vi siano margini per un "atto umanitario": sempre però evitando il cedimento al terrorismo. Se Craxi invita spavaldamente a rompere con le regole e la legalità - anticipando così un costume che caratterizzerà la "seconda Repubblica", formula usata dallo stesso segretario socialista - i leader dc sembrano più cauti, pur non lesinando ripetuti segnali di apertura: prende corpo il progetto della grazia che il Quirinale è invitato a concedere a un detenuto brigatista. È proprio la mattina del 9 maggio che dalla direzione democristiana sarebbe dovuta arrivare la parola definitiva. Troppo tardi: Moro è già stato ucciso. La tragedia repubblicana ormai compiuta. freccia rossa che punta in alto

(GUIDO CRAINZ, La Repubblica) - UNA RICOSTRUZIONE EQUILIBRATA IL DRAMMA DI QUEL 16 MARZO

la crisi di un sistema ampiamente screditato. Sarà utile riflettere con attenzione sulla ricostruzione di "una tragedia repubblicana" proposta da Agostino Giovagnoli. Sarà bene utilizzarla a fondo per allontanarsi da contrapposizioni datate e dai sentieri ingannevoli della dietrologia. Un indubbio pregio del libro sta nell'ampia documentazione su cui si basa e soprattutto nelle domande che Giovagnoli pone ad essa. Sta nella sua capacità di trattare il "caso Moro" per quel che è: un dramma che scuote nel profondo la società italiana e rivela le incertezze etiche che la attraversano, nel declinare degli anni Settanta. La crisi latente delle ideologie - osserva Giovagnoli - fece assumere al terreno dell'etica un peso di grande rilievo: come nella catastrofe dell'8 settembre del '43, si innescò allora la ricerca di quei fondamenti della convivenza civile che sembravano smarriti. Si innescò, più esattamente, una ricerca di valori validi che fu in realtà comune ai due schieramenti che si delinearono, nella contrapposizione fra la difesa delle istituzioni e la difesa di una vita umana. Quel dibattito è rivisitato con rispetto per le ragioni ideali di entrambi, pur senza nascondere che ad esse si intrecciarono anche valutazioni politiche contingenti e di più basso profilo. Il libro ripercorre inoltre le differenti fasi e i differenti vissuti di quei 55 giorni. L'annuncio traumatico del 16 marzo, si osserva, provocò emozione e angoscia ma anche un diverso sentire di settori non irrilevanti del paese, non ancora conquistati alla condanna del terrorismo. Nel gruppo dirigente democristiano quell'annuncio diffuse inoltre anche un forte senso di impotenza, se non di disfatta. La linea della fermezza fu così vissuta in quelle ore quasi come un'ultima sponda, un argine a derive catastrofiche: nella "prigione del popolo", però, non era facile capirlo. Giovagnoli non evita i terreni più infidi, ad esempio la strategia seguita allora dagli apparati dello Stato. Non nasconde le ombre che si agitano sullo sfondo - la presenza e il ruolo di uomini della P2 - ma preferisce puntare il dito sulle inadeguatezze accertate: in primo luogo l'assommarsi nella prima fase di un rifiuto rigido della trattativa e di una sconfortante inefficienza dei servizi. Nella seconda fase, poi, la "linea della fermezza" tende ad apparire piuttosto una "retorica della fermezza" e copre a fatica un quadro molto mobile: si infittiscono iniziative che vanno in direzione opposta (è accettata l'idea di un riscatto in denaro destinato a tradursi in armi), si intrecciano tensioni e dubbi. Pagine misurate sono dedicate anche alla scomposizione del "partito della trattativa": familiari di Moro, voci del mondo cattolico, settori della sinistra estrema in sofferta riconsiderazione della propria storia, e - naturalmente - Bettino Craxi. Pesarono certamente in Craxi, osserva Giovagnoli, interessi politici estranei alla vicenda, in primo luogo l'intento di svincolarsi dalla stretta di Dc e Pci. La sua posizione venne però a raccogliere - e sia pure con parzialità e contraddizioni - non solo l'angoscia per una vita umana ma anche la disaffezione latente e crescente nei confronti dell'invadenza dello Stato e del ruolo dei partiti. Il giudizio finale è equilibrato: sottolinea che gli argini iniziali posti alle trattative ebbero effetti positivi, ma anche che il moltiplicarsi degli sforzi per salvare la vita di Moro contribuì poi a sua volta a indebolire e isolare le Brigate rosse. E ripropone la domanda di fondo: si poteva fare di più e meglio, all'interno degli spazi ristretti che si vennero a creare? Sono tutte questioni di cui si può discutere pacatamente, e va aggiunto che restano da inserire meglio nel quadro almeno due elementi. Non sembra valutata appieno - nel suo spessore e nelle sue conseguenze - la crisi profonda che già attraversava il sistema politico: l'alleato più forte del terrorismo è la scarsissima credibilità del sistema e di chi lo guida, aveva annotato Giampaolo Pansa pochi mesi prima alle porte della Fiat, dopo l'assassinio di Carlo Casalegno. Rimane ancora da comprendere, inoltre, l'impatto complessivo di quelle giornate sull'insieme del paese: con una spettacolarizzazione del dramma, un vissuto da "stato d'assedio", un senso di impotenza e di espropriazione che lasciarono il segno. freccia rossa che punta in alto

16 marzo 2005 - COSSIGA: QUANDO L'URSS PREPARAVA L'INVASIONE DELL'ITALIA (ANSA): LETTERA AL GIORNALE

"Caro Direttore, ho letto con grande interesse quanto pubblicato dal tuo giornale sulla conferenza tenuta dall'amico senatore Paolo Guzzanti, presidente della Commissione Mitrokhin nel corso di un convegno sul dossier relativo. Ti scrivo per apportare qualche correzione e anche qualche integrazione (...)". Comincia cosi' una lunga lettera al GIORNALE del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. "Non fu Michael Gorbaciov - precisa Cossiga - ad informare me, allora presidente della Repubblica, di quali fossero i piani del Patto di Varsavia nei confronti dei Paesi della Nato ed in particolare dell'Italia. (...) Fu in particolare il primo presidente del Consiglio democratico, uomo di grande valore della Repubblica ungherese, che ci fece mettere al corrente dei piani". L'Urss, racconta Cossiga, firmo' con gli Usa "il primo accordo di riduzione dei missili strategici che poneva al riparo da vicendevoli attacchi nucleari il territorio degli Stati Uniti e quello dei Paesi del Patto di Varsavia". "Il nostro governo - ricorda infine l'ex presidente della Repubblica italiana - fu informato persino di esercitazioni per attraversare il Piave (...)". freccia rossa che punta in alto

MITROKHIN: GUZZANTI,COSSIGA CONFERMA, URSS CI VOLEVA INVADERE

"Cossiga conferma che l'Urss negli anni a cavallo tra i '70 e gli '80 voleva invadere l'Europa, Italia compresa" afferma Paolo Guzzanti, presidente della Commissione Mitrokhin a commento della lettera inviata oggi dal Presidente emerito della Repubblica a "Il Giornale" e che reca il titolo "Quando l'Urss preparava l'invasione dell'Italia". Credo - dice Guzzanti ai giornalisti - "che il Paese debba ancora una volta essere grato al presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga per le importantissime rivelazioni e conferme, contenute in una sua lettera pubblicata oggi dal Giornale, relative ai piani aggressivi sovietici che avrebbero dovuto portare, approfittando della profonda crisi politica, economica e militare degli Stati Uniti d'America dalla fine della guerra del Vietnam all'insediamento di Ronald Reagan e contando sul fatto che gli Usa non avrebbero ingaggiato un duello suicida a colpi di missili intercontinentali strategici, ad una fulminea e violenta conquista dell'Europa occidentale, Italia compresa, con l'impiego massiccio di armi nucleari tattiche".
Quanto il presidente Cossiga rivela- aggiunge - , "per la sua conoscenza diretta dei protagonisti, dei fatti e dei documenti, e' particolarmente significativo quando egli ricorda che: -i piani militari del Patto di Varsavia erano tutti indirizzati non in senso difensivo, ma in senso offensivo. -era stata pianificata l'invasione d'Italia attraverso due direttrici: con forze d'attacco tedesco-orientali e cecoslovacche attraverso l'Austria si pensava d'invadere l'Italia dal Nord-Est ed avendo come forze d'attacco quelle ungheresi e bulgare, attraverso la Jugoslavia e la soglia di Gorizia, da Nord Sud Est. -i sovietici ritenevano di poter occupare in un primo balzo l'Italia fino all'antica linea gotica in soli quindici giorni per poter consolidare anche un caposaldo politico. -prevedevano poi un dilagare nell'Italia centrale e meridionale e prospettavano un'invasione, con aereo-sbarchi, di Sardegna e Sicilia. -i piani strategici militari e politici dell'Alleanza Atlantica davano per scontato che nei territori occupati dal Patto di Varsavia venissero insediati governi collaborazionisti", conclude Guzzanti. freccia rossa che punta in alto

17 marzo 2005 - COSSIGA E FARANDA A CONFRONTO - "La Repubblica" - CONCITA DE GREGORIO

"A risentirci più tardi", un documentario di Infascelli sugli anni di piombo visto assieme a due protagonisti di quegli anni. Cossiga e Faranda, gli ex nemici confessioni sulla morte di Moro. Lo manderà in onda Giovanni Minoli lunedì 21 marzo su Rai Due.
le responsabilità - Mi svegliavo la notte dicendo: ho ucciso Moro. Se aveste aspettato un giorno... Fanfani aveva deciso di trattare: avevate vinto.
morti nei cantieri - Mi spinsero alla lotta armata motivazioni civili. Ricordo un film: 'Cristo fra i muratori'. Mi impressionavano le morti sul lavoro

ROMA - E´ il 16 marzo, il giorno della strage di via Fani. Nell´appartamento di Francesco Cossiga seduti davanti a un televisore enorme ci sono il prefetto Enzo Mosino, che fu la sua ombra nei 55 giorni e lo è ancora, la figlia del presidente, un regista, un produttore, un maresciallo, un magistrato, vari altri. Cossiga è reduce da un intervento, porta il collare rigido, è in tuta da ginnastica, manovra una decina di telecomandi. "Ci spareranno addosso, quando andrà in onda", dice.
Stiamo per vedere in anteprima il documentario "A risentirci più tardi". I titoli dicono: "di Francesco Cossiga e Adriana Faranda". La regia è di Alex Infascelli, lo ha prodotto la Wilder di Lorenzo Mieli, lo manda in onda Giovanni Minoli su Rai Educational per la serie "La storia siamo noi". RaiDue, lunedì 21 marzo, undici meno dieci di sera. "Vederlo dispiacerà molto a una fetta della vecchia Dc, a parte della destra ma non alla Mambro, a un settore della sinistra classica, gente come Violante. La famiglia Moro sarà violentissima".
Nel video Faranda e Cossiga sono seduti uno di fronte all´altro, due sedie bianche in un appartamento vuoto. Qualcosa come un covo. Per un´ora si intervistano a vicenda. Ogni tanto, come nel confessionale del grande fratello, sono ripresi da soli e commentano. Lei ride molto, lui mai. Lei parla con voce solenne, lui no. Lei scuote indietro i capelli, chiede cose come "mai lei come si immaginava che fossimo noi terroristi? Allegri, tristi?", si tormenta le mani, le agita, dice che non aveva "particolare attrazione per la politica", che a portarla alla lotta armata furono piuttosto "motivazioni civili, ero rimasta colpita da un film, da ragazzina: Cristo fra i muratori. Mi impressionano le morti sul lavoro".
Lui sta immobile a mani giunte sul grembo, un paio di volte le tocca una spalla, dice frasi tipo "Moro l´ho ucciso più io di lei", "voi delle Br non avete capito che avevate vinto", "tra noi due il rivoluzionario sono io". Lui parla di politica, lei di coscienza: la sua. Lui le spiega come si fa la rivoluzione, lei lo ascolta e gli dice di continuo "è vero, è verissimo, ha ragione". Sono state tagliate le parti in cui Cossiga le illustra cosa sarebbe successo se avessero rapito piuttosto Andreotti, o Berlinguer. Cosa sarebbe stato meglio. Lei ascolta in silenzio, sembrano allieva e maestro. I due nemici. La brigatista e il ministro della fermezza. La terrorista e Kossiga con le esse naziste. "Negli anni siamo diventati amici", dice lui. E difatti l´inizio è così. Lei: "Eccoci qui, presidente", gran sorriso, "Mi sento... non so, mi sento un po´...". Lui: "Vuole un optalidon?".
Scorrono le immagini, il prefetto Mosino soffre in poltrona. Cossiga indica con la testa la Faranda e dice "sa, qui in casa c´è chi l´ha arrestata". Il video: lei gli dice che voleva fare la pittrice, portava la valigetta dei suoi colori (disegna con le mani una valigetta) anche in clandestinità. Lui: "E´ che voi delle Br non avete mai accettato la realtà". Lui le racconta che ha fatto a botte, da giovane, "in solidarietà col popolo finlandese", lei ride forte. Lui vorrebbe sapere se all´origine della scelta del terrorismo c´è il lutto per la "Resistenza incompiuta". Lei dice forse ma certo questa è una motivazione "intellettuale", e parla piuttosto del film e dei morti sul lavoro. Dice che quando ferirono il marchese Teodoli se lo sognava la notte vestito di bianco.
Si arriva a Moro. Cossiga: "La frase di Andreotti sulle lettere 'non moralmente autentiche´ l´ho scritta io". "Non potevamo trattare perché eravamo uno Stato debole, solo uno Stato forte tratta". Lei: "Moro scriveva che lei era influenzato da suo cugino Berlinguer, troppo legato al compromesso storico e sardo. Che intendeva con sardo?". Lui: "Sardo, cioè implacabile". Lui: "Mi svegliavo la notte dicendo: ho ucciso Moro". Lei: "Anch´io". Lui: "Sì, ma l´ho ucciso più io. E lei, perché si oppose all´uccisione? Ragioni politiche?". Etiche: perché non si uccide una persona prigioniera. Lui: "Certo, un conto è uccidere per strada...". Lei: "... verissimo. Un conto è per strada, un altro è l´esecuzione di un prigioniero".
Cossiga in poltrona, quello a casa: "Questa donna non è una rivoluzionaria, perché per un rivoluzionario l´unica legge morale è quella della rivoluzione. E´ contraria alla violenza", poi ride: "Io - al contrario - sono per la violenza. Io sono un rivoluzionario". Passa sullo schermo la sentenza brigatista a Roberto Peci con la colonna sonora, originale, dell´Internazionale. Cossiga, nel video: "Se aveste aspettato un giorno il Consiglio Nazionale della Dc convocato da Fanfani avrebbe deciso di trattare: avevate vinto". Morosino, in casa: "Andate a rileggere il fondo di Carra di quella mattina, lo diceva". Cossiga, nel video: "Non avete capito. Su questo dissento da Andreotti: non avete capito che avevate vinto. E Andreotti sbagliò a pensare di poter risolvere con un riscatto: ma andiamo, pensi ai terroristi islamici. Vogliono forse soldi? A La Malfa spiegai: no che non si deve reintrodurre la pena di morte. Li esaspererebbe". Lei: "Ha ragione, ragionissima. Come dopo la morte della moglie di Curcio. Monta la sete di vendetta". Lui: "Non mi perdono di non averlo trovato". Lei: "Ci sentivamo il fiato sul collo". Lui: "Avevamo diviso Roma a quadratini, ci saremmo arrivati. Lo uccideste per questo, quel giorno?". Lei: "Anche". Lui: "Se Gava e Andreotti sono quello che si è detto allora, avevate ragione voi". A video spento: "Chiedo ai magistrati militanti di sinistra: quando hanno incriminato Gava, Andreotti - le stragi di stato, Ustica, la mafia - hanno pensato che allora avevano ragione le Br?". Le Br ci sono ancora, presidente. "Niente a che vedere. Quelle avevano radici politiche, queste sindacali. La Lioce e la Banelli stanno a Curcio e alla Faranda come il sindacato alla politica". E´ una gerarchia? "Certo. Rivendico la superiorità della politica". freccia rossa che punta in alto

17 marzo 2005 - CASO MORO E ROTTURA ANTIFASCISMO: (Salvati Michele - Il Corriere della sera)

L' antifascismo non bastava a legittimare il Pci Anche con Moro vivo l'unità nazionale sarebbe finita, perché Berlinguer non voleva rompere con Mosca DIBATTITO In che senso l'agguato di via Fani segnò la fine del patto resistenziale? Una replica all'ipotesi di Sergio Luzzatto La bella recensione di Luzzatto mi ha fatto venir voglia di leggere il libro di Giovagnoli, che comprerò non appena sarà disponibile. Le ultime frasi, quelle riprese nel titolo dell'articolo ("Delitto Moro: così iniziò la crisi dell'antifascismo") però non le capisco: perché il delitto Moro dovrebbe segnare l' inizio di questa crisi? E di quale antifascismo si tratta? Presumo si tratti dell'antifascismo che fu il cemento dell'"arco costituzionale" e il fondamento dell'operazione politica di cui Moro e Berlinguer furono i protagonisti: quella che parte dal compromesso storico e arriva ai governi di solidarietà nazionale con appoggio esterno del Pci. Un' operazione in cui le finalità dei due protagonisti erano diverse e che non poteva sfociare in un inserimento pieno del Pci nell'area di governo, a meno che i legami con Mosca non fossero stati recisi con una nettezza alla quale Berlinguer non voleva-poteva spingersi. Se è della crisi di questo antifascismo che si tratta (e non dell'antifascismo ideologico e culturale che gli faceva da retroterra e che il dibattito revisionistico aveva appena cominciato a incrinare), il delitto Moro vi contribuisce in modo molto semplice, eliminando uno degli architetti dell'operazione "compromesso storico-solidarietà nazionale". Con i successori di Moro, Craxi ha porte aperte nel ridurre i comunisti al ruolo di opposizione imposto dalla conventio ad excludendum e dal quale era sembrato che il leader democristiano volesse sollevarli. Se Moro fosse rimasto in vita, è impossibile dire che cosa sarebbe successo, visto che la storia non si fa con i se. Dubito però che, senza una rottura radicale del Pci con Mosca, le cose sarebbero andate in modo molto diverso da come andarono: il Psi di Craxi non era quello di De Martino e neppure Moro sarebbe riuscito a far digerire agli americani un governo con comunisti non "sufficientemente" riformati. Detto in altre parole. Il periodo che va dal 1976 al 1979 rappresenta l'acme del processo di avvicinamento di un Pci "non-sufficientemente-riformato" (unreconstructed, direbbero gli inglesi) all'area di governo, un processo alimentato sia dalla visione berlingueriana del compromesso storico, sia dall'esigenza di coinvolgere il più grande partito di opposizione in un'opera di stabilizzazione sociale allora drammaticamente necessaria, sia dall'intenzione di Moro di spingere il più grande partito della sinistra verso una riforma ideologica e di schieramento internazionale profonda. Di questo processo, l'antifascismo e l'appartenenza all'arco costituzionale rappresentano l'ideologia. Un' ideologia perché l'antifascismo, da solo, era una condizione necessaria ma non sufficiente per aspirare ad essere un partito di governo: l'altra condizione indispensabile era una radicale revisione ideologica e una scelta di campo netta a favore dell' Occidente. Insomma, sarebbe stato necessario quel che altrove ho definito un "rigetto simmetrico" delle due grandi esperienze totalitarie della prima metà del Novecento, fascismo e comunismo. Profondamente antifascista, protagonista della Resistenza, il Pci non seppe o volle diventare anticomunista in tempo utile. È questo, assai più del martirio di Aldo Moro e del confuso agitarsi dei partiti in quei cinquantacinque giorni, che offrì a Craxi una poderosa arma ideologica e iniziò a sfaldare l'antifascismo come mito fondante della Prima Repubblica. Come mito sufficiente. "In nome della Resistenza, i fautori della fermezza sacrificarono, con Moro, l'incarnazione stessa della Prima Repubblica; in nome dell'umanità, i fautori della trattativa inaugurarono un'opera sistematica di delegittimazione della "repubblica dei partiti". Così, in cinquantacinque giorni di ferro e di sangue, la difesa dell' antifascismo contribuì a preparare la crisi dell' antifascismo": con queste parole, belle ma alquanto oscure, Luzzatto chiude la sua recensione. Che cosa vuol dire? Craxi, avversario politico di Moro, era per la trattativa. I comunisti, suoi amici, erano per la fermezza. Provvisoriamente resto dell'idea che l'assassinio di Moro non ha altre connessioni con la crisi dell' antifascismo se non quella, ovvia, che ho appena messo in luce: l'antifascismo come cemento della Prima Repubblica sarebbe probabilmente entrato in crisi anche se Moro si fosse salvato e avesse ricominciato a tessere la sua trama con il Pci, senza peraltro riuscire a portarla a compimento per l'indisponibilità di quel partito ad una rottura secca con la sua tradizione e le sue alleanze. Per capire se quest'idea provvisoria è in grado di reggere non mi rimane che leggere il libro di Giovagnoli. Dalla difesa alla crisi Le parole di Luzzatto In nome della Resistenza, i fautori della fermezza sacrificarono Moro, l'incarnazione della Prima Repubblica; in nome dell'umanità, i fautori della trattativa delegittimarono la "repubblica dei partiti": la difesa dell' antifascismo preparò la crisi dell'antifascismo. freccia rossa che punta in alto

18 marzo 2005 - CASO MORO E ROTTURA ANTIFASCISMO: (Cafagna Luciano - Il Corriere della sera)

L'unità antifascista era finita. Il delitto Moro la seppellì. Il tema. L'autore. Nel 1978 il mito resistenziale aveva ceduto il campo a una violenza diffusa DIBATTITO La discussione avviata da Sergio Luzzatto sugli sviluppi della politica italiana dopo l'assassinio del presidente dc L'assassinio di Aldo Moro è un evento storico ancora presente nella coscienza di coloro che, di qualsiasi età, l'abbiano vissuto. Si continuano a girare film su quell'episodio, a scrivere libri, a parlarne sui giornali. È rimasto presente, quel fatto orribile, come momento, forse attimo, di vita intensamente collettiva. In senso passivo, come scossa ricevuta, ad alta tensione. Ma anche in senso attivo. E mi spiego. Gli italiani, infatti, dopo quel terribile evento, non furono più gli stessi del giorno prima. Non lo furono i cittadini semplici, non lo furono i politici e i politicizzati, non lo furono gli stessi anti-cittadini, gli "antagonisti" di allora. Nei cittadini semplici si fece più nettamente strada la persuasione che la drammaticità della convivenza politica fosse giunta, in quei micidiali anni Settanta, a un punto di saturazione, di insopportabilità. Bisognava finirla con quella violenza insensata. E bisognava finirla pure con una politica troppo permissiva, con la tolleranza verso l' ostilità alle funzioni stesse dell' ordine pubblico, e a chi le assolveva. E forse anche con le idee di compromesso a ogni costo, con la prassi che era stata dello stesso Moro. Non abbiamo molto di più del rapporto fra i dati elettorali del 20 giugno 1976 e quelli del 3 giugno 1979 (Moro fu ucciso il 9 maggio 1978) per documentare attendibilmente le reazioni d' opinione intervenute dopo il delitto Moro. Il primo effetto che salta agli occhi è l' incremento di quasi 3 punti nell' astensionismo elettorale, accompagnato da un paio di punti di aumento nella percentuale dei voti non validi (schede bianche o annullate). La seconda indicazione è la vistosa perdita di voti comunisti, il 4%, non compensata affatto dal molto lieve incremento della sinistra estremista. La terza indicazione è che l' elettorato si era spostato, ma non a destra: anzi il neofascismo perdeva addirittura. La quarta indicazione è la rimarchevole affermazione del partito radicale che tocca il 3,5%. Si può tentare una interpretazione di questo che è forse - se si considera la brevità dell' intervallo temporale - uno dei più rimarchevoli mutamenti nell' orientamento degli elettori italiani prima degli incerti assestamenti degli anni Ottanta che sfoceranno alla fine nella rivoluzione elettorale del 1994. La consultazione elettorale successiva al delitto Moro avviò in Italia l' inesorabile deriva dell' astensionismo elettorale che ancora continua. Significò, in quel momento, paura o disgusto per la politica, e, chissà, rinuncia, per molti, a illusioni nutrite. Segnò anche un regresso della fiducia che si era andata formando, negli anni precedenti, nei confronti di un partito comunista che appariva serio, pragmatico, moderato, sempre meno filosovietico. Una parte non piccola di coloro che avevano pensato questo si ravvide, probabilmente pensando che, al di là del nuovo volto responsabile, si dovesse piuttosto tener conto di una istigazione originaria attivata dal comunismo, quella che aveva contribuito a diffondere i batteri che erano poi evoluti nel terrorismo. (Una importante ideologa della sinistra, la Rossanda, parlò di "album di famiglia" riconoscibile nella cultura del terrorismo). Dove andarono quei voti? In parte si dispersero, in parte, forse, andarono ai radicali che apparivano allora come un progressismo modernizzante pulito, deciso ma non violento, pragmatico, scevro di ideologie. I voti democristiani rimasero sostanzialmente allo stesso livello del 1976. Sarebbe stato terribile che venisse addirittura punito il partito della vittima: e gli italiani non lo fecero. In sostanza, il delitto Moro, pose fine alla tremenda crisi degli anni Settanta, crisi politica "organica" avrebbe detto Gramsci, "prova d' orchestra", cioè, insubordinazione generalizzata nella società, secondo la parodia, di immensa amarezza, di un nostro grande regista. Da quel giorno cominciò a tornare il rispetto sociale reciproco e prese a scemare il tasso di violenza nei rapporti politici e sociali. L' apprezzamento per la mediazione eroica ad ogni costo - che era stata propria del disperato genio politico di Aldo Moro - fece posto - nella cittadinanza politicizzata - all' attesa di un leader forte e decisionista: ma, importantissimo sottolinearlo, non "reazionario". Forse la Prima Repubblica finì con quella tragedia: perché questa aveva concluso il lento fallimento del mito del CLN, di una recuperabile unità antifascista "da dopoguerra": il mito che aveva accompagnato ambiguamente e senza chiarezza la storia politica italiana dalla fine della egemonia democristiana di De Gasperi alla crisi del centrosinistra anni 60, fino a un abbozzo di "compromesso storico" - ancora il mito del resistenziale CLN - bersagliato da pallottole. Una delle quali raggiunse colui che resterà il più grande capro espiatorio della nostra storia. Dopo Moro venne Craxi, con una idea, non per caso, di "grande riforma": era l' idea di una "seconda repubblica". Quella "grande riforma", però, non ci fu. L' assassinio di Moro chiuse la prima repubblica. Ma non aprì la strada alla seconda. Luciano Cafagna, storico, studioso di Cavour e Toqueville, autore di numerose pubblicazioni, è stato professore di Storia contemporanea all' Università di Pisa, presidente della Società italiana per lo studio della Storia contemporanea e commissario dell' Autorità garante per il mercato e la concorrenza Riformista, in passato vicino al Psi, oggi è presidente dell' associazione "Libertà eguale" che raccoglie l' area liberal dell' Ulivo Il dibattito sul legame tra il caso Moro e la fine del patto resistenziale si è aperto con un intervento di Sergio Luzzatto sul "Corriere" di martedì 15 marzo. L' articolo prendeva spunto da un recente libro di Agostino Giovagnoli dedicato al rapimento dello statista dc In risposta a Luzzatto, sul "Corriere" del 17 marzo, Michele Salvati ha messo in discussione l' ipotesi che il delitto Moro abbia segnato la fine dell' unità nazionale scaturita dall' antifascismo. freccia rossa che punta in alto

20 marzo 2005 18.26 (swissinfo/Radio Svizzera Internazionale) - Italia: Mitrokhin, su lista Carlos c'è nome Morucci

ROMA - Tra le formazioni terroristiche che usufruivano del supporto di Separat, l'organizzazione terroristica capeggiata da Ilich Ramirez Sanchez, conosciuto come 'Carlos', c'erano anche le Brigate rosse (Br). E in una lista di aderenti all'organizzazione di Carlos figura anche uno dei rapitori di Aldo Moro: Valerio Morucci. È quanto emerge dalle carte del giudice francese Jean-Louis Bruguière, appena giunte alla Commissione parlamentare d'inchiesta italiana sul "dossier Mitrokhin", secondo quanto pubblicato oggi dal 'Corriere della Sera'.
Diciotto faldoni, più due raccoglitori, zeppi di informazioni riunite dal magistrato in 25 anni di pazienti indagini su un attentato avvenuto in Francia e attribuito all'organizzazione di Carlos, attualmente detenuto a Parigi. Per raccogliere prove sul suo conto, il giudice ha interrogato gran parte dei responsabili dei servizi segreti dell'ex blocco sovietico. Gran parte di quei verbali sono ora a San Macuto, richiesti per rogatoria da una delegazione della commissione che nell'ottobre scorso ha incontrato Bruguière.
Da quelle carte, classificate 'riservatissime', spuntano informazioni sul ruolo di alcuni personaggi chiave di Separat. Tra questi Morucci e "Roberto" - che il giornale ribadisce trattarsi del nome di copertura di Giorgio Bellini, ma il ticinese ha sempre negato di essere il "Roberto" citato nei documenti, pur avendo riconosciuto di aver incontrato a più riprese e alla luce del sole Carlos. In Svizzera, le inchieste del Ministero pubblico della Confederazione su Bellini e altre tre persone in relazione ai presunti legami con Carlos, si erano concluse con l'archiviazione per mancanza di prove. I quattro indagati hanno anche ricevuto risarcimenti per la detenzione ingiustificata.
In nove capitoli dattiloscritti, scrive il 'Corriere della Sera', il servizio segreto di Budapest ricostruisce la storia del gruppo terroristico trasnazionale. Nato tra il 1976 e il 1978 sulle ceneri dei gruppi mediorientali Wadi Haddad e Fplp, secondo il documento che risale al 1984, era basato a Damasco. Carlos, a capo del movimento assieme al tedesco Johannes Weinrich, detto Steve, si muoveva fra Tripoli, Budapest e Belgrado e si finanziava con traffico d'armi e transazioni economiche con Paesi africani e arabi.
Separat non era una formazione come le altre, era una rete che forniva supporto logistico e armi ad attentati compiuti da altri. Al numero 31 di una lista di fiancheggiatori, stilata dal servizio ungherese, figura Valerio Morucci, il brigatista dissociato, presente alla strage di via Fani, postino delle lettere di Moro durante il sequestro, arrestato nella casa di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio, citato nelle schede Mitrokhin come referente del Kgb in Italia. Molto citato nei documenti ungheresi, scrive ancora il 'Corriere della Sera', 'Roberto', esponente delle Br in contatto permanente con Separat . Carlos avrebbe chiesto di conoscerlo per le sue competenze nella preparazione di esplosivo per attentati.
La vicenda Mitrokhin era scoppiata l'11 settembre 1999 quando il "Times" aveva pubblicato anticipazioni di "The Mitrokhin Archive" di Christopher Andrew, professore di Cambridge, che aveva avuto accesso alle carte di Vassili Nikitich Mitrokhin, oscuro archivista del Kgb, che dal 1972 al 1984 averva copiato documenti riservati, consegnati poi alla Gran Bretagna. Il dossier era divenuto pubblico in Italia un mese dopo. Le carte (645 pagine) contenevano 261 nomi e pseudonimi tra i quali comparivano nomi di politici e giornalisti famosi coinvolti nella rete o da coltivare per ottenere informazioni. freccia rossa che punta in alto

23 marzo 2005 (EMILIANEWS) - L'irriducibile Gallinari: ammiro Cossiga

"Cossiga? Una volta scrivevo il suo nome con la k, oggi lo ammiro". Chi parla è Prospero Gallinari, 54 anni, nel nucleo storico delle Brigate rosse reggiane assieme ad Alberto Franceschini, Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli, per citare alcuni ragazzi dell'eversione di sinistra che nei primi anni Settanta in via Emilia San Pietro diedero vita all'appartamento. Poi la clandestinità a Milano, gli assalti terroristici, il carcere, le fughe: di Gallinari si ricorda la funambolica evasione dal carcere di Torino nel '76. Il sequestro, la prigionia e la fine del presidente della Dc Aldo Moro che segnarono il culmine e assieme il declino della parabola delle Brigate rosse. Dopo l'uccisione dello statista democristiano ancora un arresto per Gallinari, braccato dopo una sparatoria, colpito da una pallottola alla testa, a terra esanime tra la vita e la morte. Negli anni Ottanta, segnati dalle carceri speciali, il ripensamento dell'esperienza degli anni di piombo. Alberto Franceschini scrive "Mara, Renato ed io", storia di Renato Curcio, della moglie Mara Cagol e del movimento eversivo. Si consuma la rottura. Franceschini diventa il "traditore", nessuno lo segue. Mario Moretti, Laura Braghetti, ex moglie di Gallinari e carceriera di Moro, Renato Curcio, sono tutti critici con l'ex compagno che abbozza al pentimento che loro giudicano guidato. Prospero Gallinari sconterà gli anni della restrizione senza mai rinnegare la sua storia. E non lo farà neanche dopo, quando uscito dalla cella per problemi di cuore, tornerà a vivere nella sua città, Reggio.
Ecco perché oggi le parole di Gallinari sul picconatore Francesco Cossiga destano interesse. I rapporti tra l'ex terrorista reggiano e il capo dello Stato erano già conosciuti, più volte il presidente andò a trovarlo in carcere e più volte si espresse sulla possibilità di attenuarne la condanna. Lo racconta lo stesso Gallinari: "L'ho conosciuto in carcere, abbiamo chiacchierato a lungo". E ancora: "Ammiro Cossiga perché a differenza di altri politici lui ha avuto il coraggio di confrontarsi con gli anni di piombo, per chiudere il clima di scontro chiese la grazia per Renato Curcio".
Parole impensabili fino a qualche tempo fa, ma oggi la vita libera di Gallinari ha una diversa velocità: scende in piazza con le bandiere arcobaleno contro la guerra, parla nei centri sociali. E vuole raccontare la sua verità sigillandola tra le pagine di un libro che uscirà entro l'anno. Mettere nero su bianco la sua storia delle Br: "Certo che parlerò anche di Moro". Una memoria di Prospero Gallinari che entra nelle trame del sequestro Moro, lui accusato a torto per vent'anni di esserne stato l'esecutore materiale, era ancora più impensabile. Ma Gallinari avverte: "Chi aspetta rivelazioni ad effetto sbaglia". E da irriducibile attacca: "Le Br fecero tutto da sole, non erano manovrate dall'esterno, avevamo l'addestramento e soprattutto la convinzione per sequestrare Moro". Inevitabile e chiaro contromessaggio ad Alberto Franceschini che anche nel recente "Che cosa sono le Br", scritto con Giovanni Fasanella, sostiene la tesi degli infiltrati nel movimento. freccia rossa che punta in alto

23 Marzo 2005 (Dagospia) - Brigatisti impuniti - Franceschini: "io volevo sequestrare Andreotti, gli toccai la gobba...se fossi riuscito a perseguire il mio obiettivo, cioè quello di sequestrarlo sarei stato in pace col mondo. era il sogno della mia vita..."

All'indomani della messa in onda sulla Rai del documentario, prodotto da Wilder, "A risentirci più", incontro-intervista tra Adriana Faranda e Francesco Cossiga, "Planet 430" torna sull'argomento con una nuova puntata condotta da Luca Telese e in onda stasera su Planet (Sky).
Ospiti in studio gli ex brigatisti Adriana Faranda e Alberto Franceschini, la giornalista di Repubblica Silvana Mazzocchi animano il dibattito dal titolo "Gli anni di piombo e l'Italia di oggi: la notte della seconda Repubblica".
A Faranda e Franceschini vengono mostrate le foto di alcuni personaggi che hanno fatto la storia di quegli anni.

COSSIGA
Faranda: amico/nemico, non saprei... sono categorie che non mi appartengono, posso dire che siamo persone profondamente diverse.
Franceschini: E' una persona estremamente intelligente, ironica e con verità nascoste, che non può dire o se le dice lo fa a modo suo come un buffone di corte che fa le piroette e si mette pure nei panni del brigatista.

PECI
Faranda: E' uno che ci ha tradito? Probabilmente sì, anche se su questo fenomeno dei pentiti ho sempre pensato ci fosse qualcosa alla base che lo provocasse.
Franceschini: Era un infame? Beh, è il titolo del suo libro...e secondo la vecchia terminologia sì, lo è. Certo, dopo 20 anni, il significato non vale più, ma da un punto di vista morale e psicologico ciò che mi colpisce di più dei pentiti è che loro per uscire di galera hanno fatto arrestare un sacco di persone che loro stessi avevano reclutato nella lotta armata.

DALLA CHIESA
Faranda: Sì, è un nemico che ha sparato. Quando penso a via Fracchia...penso alla sua azione e la considero come un'azione di guerra eccessiva, un po' come succedeva in America con i Black Panter, dunque delle azioni che a noi confermavano lo stato di guerra.
Franceschini: Per noi era il nemico con la "N" maiuscola. Io sono profondamente convinto che se non ci fosse stato Dalla Chiesa le BR non sarebbero state sconfitte. E' stato un generale dei carabinieri molto intelligente. Lui era l'altra faccia nostra. Se fosse sopravvissuto alla mafia, probabilmente oggi avremmo parlato serenamente come due vecchietti in pensione.

ENRICO BERLINGUER
Franceschini: Lui era il traditore, la persona che allora aveva tradito gli ideali del Comunismo, che ha svenduto la tradizione comunista... tant'è che noi attaccavamo i berlingueriani e non il PCI.
Faranda: Non proprio il traditore ma sicuramente il dirigente che stava spingendo il PCI di allora nel vicolo cieco del compromesso storico. Un inganno, un illusione ottica, quel disegno politico che ancora oggi non avrebbe avuto gli esiti che lui desiderava.
Franceschini: Meglio Craxi, dai dillo...almeno come intelligenza politica.
Faranda: Bah, mi sono estranei tutti e due.

ANDREOTTI
Franceschini: Lui era il nemico per antonomasia. Dal punto di vista politico era il Democratico. Io volevo sequestrare Andreotti, gli toccai la gobba... se fossi riuscito a perseguire il mio obiettivo, cioè quello di sequestrarlo sarei stato in pace col mondo. Era il sogno della mia vita.
Faranda: Era l'uomo del potere.

MAMBRO-FIORAVANTI
Franceschini: Io la Mambro l'ho difesa varie volte. Ho sempre detto loro - scherzando - che avevano sbagliato sportello di reclutamento. Secondo me potevano tranquillamente venire da noi come esponenti di una generazione che era quella del '76.
Faranda: Ex ragazzi come me con scelte politiche opposte alle mie ma con la stessa spinta.

MORETTI
Franceschini: Un grande punto interrogativo. Su di lui si è detto di tutto: Savasta e molti pentiti raccontano dei suoi contatti a Parigi, con un gruppo che noi chiamavano il superclan (Corrado Simeoni, etc...) e questi contatti ha continuato a tenerli nel corso degli anni... Se questa cosa è vera, questa è una chiave di lettura fondamentale.
Faranda: E' un compagno a cui ho voluto molto bene, perché lo sentivo dentro le cose. Non ho mai avuto la sensazione che Moretti fosse l'anello d'infiltrazione delle BR, l'ho sempre considerato un compagno come noi, probabilmente molto più aperto di altri dirigenti dell'organizzazione o degli stessi Bonisoli, Azzolini, Prospero Gallinari. freccia rossa che punta in alto

23 marzo 2005 - LIBRO GIOVAGNOLI SU CASO MORO
(Vincenzo Guercio - L'Eco di Bergamo)

"Sequestro Moro, la Dc tentò la via del riscatto". Lo storico Giovagnoli ricostruisce in un saggio la morte dello statista e il ruolo dei protagonisti "E il partito valutò anche l'ipotesi dello scambio di prigionieri ma i brigatisti non erano interessati". A pochissmi giorni dal ventisettesimo anniversario del rapimento dello statista democristiano (16 marzo 1978), esce domani un nuovo, ponderoso volume sull'affaire Moro - Il caso Moro. Una tragedia repubblicana (Il Mulino, pp. 382, euro 22) - che, dopo tanta profluvie di rivisitazioni giornalistiche e televisive, ricostruisce con i metodi della storiografia "professionale", fondandosi su ampia ricostruzione documentale, una storia che scosse dal profondo la vita delle istituzioni italiane. L'autore è Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all'Università Cattolica di Milano.
Professore, quali le novità fondamentali emerse dal suo massiccio lavoro di scavo, rispetto all'idea vulgata consolidatasi in questo quarto di secolo? "La novità fondamentale è quella di riportare l'attenzione sui protagonisti reali della vicenda: Moro, le Br e i partiti politici. Dico questo perché in realtà in questi 27 anni si è molto insistito su figure "invisibili" - servizi segreti stranieri, Cia e Kgb, apparati deviati dello Stato - che sono però rimaste sempre dei fantasmi. Siamo tornati sul terreno dei fatti, accertati in base ai documenti, a testimonianze concrete, che permettono di ricostruire una parte notevole della verità. Possiamo mettere in chiaro, in particolare, come si mosse la classe politica, a cui si sono spesso attribuite intenzioni misteriose, obiettivi inconfessabili, come la stessa morte di Moro. Invece, complessivamente, la massa della documentazione consente di ricostruire una dinamica che ha una sua comprensibilità, fa emergere con evidenza i numerosi sforzi che la classe politica, specialmente democristiana, fece per la salvezza di Moro, contrariamente a ciò che si è spesso detto sull'immobilismo della Dc, o peggio sulla sua volontà di far morire il presidente del partito".
Lo iato, allora, fra partito della "trattativa" e quello della "fermezza" non fu così netto come è stato tramandato sinora? Il fronte del rigore non fu poi così granitico? "Esattamente: questo è uno dei punti chiave del volume. Si evince, per esempio, dalla documentazione, che il segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, leader dello schieramento della fermezza, ebbe modo più volte di muoversi in direzione della salvezza di Moro, sollecitando tutti i colleghi di partito a fare proposte in tal senso, mettendo in guardia gli altri schieramenti, nelle riunioni di vertice, contro atteggiamenti eccessivamente rigidi. Tutto, continuamente, ripeto, al fine di salvare il presidente e l'amico personale: in Zaccagnini le due cose coincidevano, e la ricostruzione storica riporta a galla tutto il suo dramma umano, la lacerazione tra la fortissima volontà di evitare la morte di Moro e, nel contempo, la consapevolezza dei doveri che incombevamo sulla Dc, in ordine alla salvaguardia dello Stato e contro il riconoscimento delle Brigate Rosse. Quello del segretario del partito è il caso che meglio rivela come i due fronti cui lei accennava - quello della fermezza e quello della trattativa - convivessero, in realtà, nella stessa persona, cercando, ansiosamente, una difficile sintesi. E ciò vale un po' per tutti i leader democristiani, ed è ancora più evidente a livello di partito, ove contemporaneamente si manifestano atteggiamenti di maggior rigore "legalistico", per esempio in Cossiga - ma bisogna capire anche Cossiga, che era ministro dell'Interno, dunque la persona istituzionalmente più legata al dovere del rigore - e invece altri apertamente favorevoli a far prevalere l'affetto nei confronti del collega prigioniero, come per esempio in Misasi. Ma le due cose non sono mai del tutto disgiunte: anche in Cossiga si intuisce, fra le righe, in modo molto riservato, che c'è la volontà di salvare Moro, così come in Misasi c'è l'accettazione del fatto che bisogna, comunque, evitare ogni riconoscimento del terrorismo. Tutto questo divenne, poi, ma a livello di maggior razionalizzazione, un dibattito sul rapporto tra il valore della vita umana e il valore delle istituzioni: una discussione, in termini di principi morali, su quale dei due debba prevalere". Perché Craxi, in altre circostanze persona prima della fermezza, anche "esibita", condotta sino a rischio di incidente diplomatico, nell'occasione volle essere invece l'uomo della mediazione umanitaria? Fu per sottrarre voti allo scudo crociato, "per guadagnarsi spazio" come è stato scritto "fra democristiani e comunisti", o anche per autentiche ragioni filantropiche e umane? "Ci sono tutti e due gli aspetti. Credo ci fosse una sincerità di fondo, da parte di Craxi, e però anche un motivo politico molto comprensibile: il mondo cattolico era in larga parte favorevole a iniziative per salvare Moro. Ci fu un famoso documento pubblicato da Lotta Continua e sottoscritto dai presidenti dell'Azione cattolica e della Fuci, dal Movimento laureati e da numerosissimi vescovi - il che ora fa un po' sorridere: uscì, ripeto, su Lc - che chiedeva si facesse tutto il possibile per impedire la morte dello statista. E però la Dc non raccoglie, non può intercettare queste istanze, perché è costretta, almeno in forma ufficiale, a tenere un'altra posizione. È proprio Craxi, allora, che fa sua questa domanda. Teniamo conto che, in quegli anni, guida un partito allo sbando, che sta rifiutando il marxismo ma non sa a quale sponda ideologica approdare. Allora c'è l'intuizione politica, appunto, di recuperare la tradizione umanitaria propria del socialismo, raccogliendo insieme la richiesta di una parte consistente del mondo cattolico, che vuol essere politicamente rappresentata. Sincerità e strumentalità sono molto vicine. Si tratta di un leader politico che mette assieme ragioni ideali, istanze concrete, obiettivi immediati e fa una sua sintesi, che, certo, può piacere o no". E tuttavia continua a sorprendere questo "bifrontismo" craxiano: d'altra parte egli resta uomo delle decisioni irrevocabili, di un certo, sia detto in senso affatto neutrale, "virilismo" politico, talvolta sin "aggressivo". "Certo, c'è anche questo in lui: la violenza, in certi impatti e discussioni, la spregiudicatezza, la pressione formidabile che esercita per imporre la sua volontà. E questi aspetti si manifestano anche nella vicenda Moro: io racconto un incontro terribile tra delegazione socialista e delegazione democristiana, in cui Craxi è veramente molto aggressivo. Ma non è tutto. Craxi ha intuito una cosa importante: nessuno, in quel momento, assumeva fino in fondo il problema dell'impegno dello Stato per salvare una vita umana. Non che gli altri non se lo ponessero, ma lo facevano più "privatamente", avevano l'idea che il ruolo pubblico dello Stato dovesse coincidere con la rigida fermezza nella difesa delle istituzioni. Craxi intuisce che anche la difesa della vita umana è un contenuto politico, è una proposta politica che può essere sostenuta; trasforma, insomma, un'istanza umanitaria in un'istanza politica. E questa è un'operazione legittima, anche culturalmente apprezzabile". Restiamo al tema della trattativa: le ipotesi del riscatto e dello scambio di prigionieri, al di sotto della facciata pubblica, furono effettivamente ben ponderate, prese attentamente in considerazione dalla dirigenza Dc? "Direi di sì. Ma entrambe le strade, per motivi diversi, non erano percorribili. Lo scambio di prigionieri non interessava le Br, contrariamente a quello che dicevano e facevano credere. A loro interessava il riconoscimento politico. Lo scambio di prigionieri, Curcio compreso, importava solo come strumento per arrivare a questo. È un dato importante da considerare: gli stessi brigatisti hanno imposto condizioni talmente difficili, da far ritenere che non volessero realmente praticare questa possibilità. Il discorso del riscatto è stato subito e seriamente valutato; fu, anzi, concretamente "preparato" dal Vaticano, Paolo VI seguì personalmente il tentativo di raccogliere i soldi e, soprattutto, di stabilire un canale di comunicazione con i terroristi, attraverso don Curioni e le carceri; ma anche a questa via le Br ponevano scarso interesse. E, prima ancora che emergessero gli sforzi della Santa Sede, gli stessi leader politici assunsero tutt'altro che superficialmente l'ipotesi: ne discussero in una riunione riservata, Andreotti la propose e nessuno obiettò; anzi, sappiamo che da parte comunista ci fu un tacito via libera. Sarebbe stata, insomma, una cosa deprecata ufficialmente da tutti, ma che non avrebbe provocato uno sconquasso del quadro politico, una crisi di governo: questa era la sostanza del problema. C'era l'idea, molto chiara, che il pagamento di un riscatto non costituisce un riconoscimento politico". È un dibattito che è riemerso giusto di questi tempi in occasione del rapimento di Giuliana Sgrena. "I termini, in effetti, sono gli stessi. La classe politica di allora ritenne che "si potesse fare". Anche se, certo, i soldi, come si è detto in questi giorni a proposito del terrorismo islamico, finiscono poi con l'essere una forma di indebito, deplorevole finanziamento". freccia rossa che punta in alto

30 marzo 2005 - CASO MORO E ROTTURA ANTIFASCISMO
(Agostino Giovagnoli - Corriere della sera)

Caso Moro, anche le Br si dicevano eredi della Resistenza - DIBATTITO - Crisi dell' antifascismo: l' autore del libro sul rapimento del leader democristiano risponde alle osservazioni di Luzzatto. In una bella recensione del mio libro Il caso Moro, appena pubblicato dal Mulino, Sergio Luzzatto si è chiesto se il declino dell' antifascismo sia cominciato alla fine degli anni Settanta. L' interrogativo implica una riflessione sulla storia dell' antifascismo che, dal 1945 agli anni Novanta, ha conosciuto una continua trasformazione di protagonisti e contenuti, significati politici e valenze culturali. In particolare, l' antifascismo non è entrato in crisi solo con il crollo del comunismo e fin dagli inizi ha sofferto di una profonda spaccatura fra chi era coinvolto nella Resistenza e chi si mantenne lontano dal "vento del Nord", come De Gasperi e Togliatti. In seguito, invece, proprio la Dc e il Pci sono diventati i più convinti sostenitori dell' antifascismo, ma per capire questo cambiamento, occorre prima ricordare il congelamento dell' antifascismo dopo lo scoppio della guerra fredda e la connessa conventio ad excludendum, fondamento della "democrazia bloccata". La graduale attenuazione della tensione internazionale favorì il ritorno all' antifascismo, che in un primo tempo fu sostenuto soprattutto da forze laiche, finché la Democrazia cristiana non lo assunse per motivare un' alleanza con i socialisti basata sulla "delimitazione della maggioranza" nei confronti dei comunisti. Aldo Moro spiegò allora che le ragioni dell' antifascismo cattolico non erano solo quelle della Resistenza, ma anche ragioni "più antiche e più profonde, perché attingono alla nostra coscienza cristiana", rivendicò alla Dc di aver operato per coinvolgere le masse nella vita dello Stato, "liberandole da ogni suggestione totalitaria", e prospettò un' opposizione al comunismo basata solo su metodi democratici. Molte cose sono cambiate dopo il 1968. Alla scadenza dei venticinque anni, gli eventi passati cominciarono ad apparire distinti dalle biografie personali e si iniziò a fare storia del fascismo in senso proprio, a prescindere dalla militanza antifascista, come mostrano i volumi di De Felice, Melograni, Scoppola. Sul piano politico, fu soprattutto il Pci a raccogliere la bandiera dell' antifascismo, sia per uscire dall' isolamento politico sia per svincolare le istituzioni da connivenze con l' estrema destra o, addirittura, con lo stragismo. Se fino al 1974, ha affermato un dirigente dei servizi segreti, Gianadelio Maletti, "nessuno ci aveva spiegato che dovevamo difendere la Costituzione", negli anni successivi vennero meno le diffidenze reciproche che per molto tempo avevano contrapposto in Italia forze dell' ordine e partiti di sinistra. L' antifascismo politico raggiunse allora il suo culmine, ma proprio in quegli anni Pasolini denunciò che la figura dell' antifascista stava perdendo la sua consistenza antropologica. La denuncia pasoliniana ha trovato un' immediata conferma nell' uso dell' antifascismo da parte della "generazione dei nipoti" protagonisti del terrorismo rosso. Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate rosse, ha efficacemente descritto l' ascendente esercitato su di lui dal nonno partigiano, assai più affascinante del grigio padre comunista, inserito nella macchina del partito e infastidito dalle molte stranezze di quello scomodo genitore che non si era mai adattato pienamente alla "normalità" post-bellica. Molte contraddizioni esplosero con il caso Moro, che fece emergere una spaccatura profonda fra opposte interpretazioni dell' antifascismo. Da una parte si schierarono, infatti, i partiti che difendevano le istituzioni nate dalla Resistenza, dall' altra c' era chi denunciava la "Resistenza tradita", pretendendo di portarla finalmente a compimento. Ma costituì un' operazione impropria, seppure necessaria, richiamare l' antifascismo per contrastare un pericolo che non aveva certamente matrici fasciste e del tutto assurdo fu richiamarlo in opposizione all' intero arco delle forze democratiche, come fecero le Br. Le contraddizioni emerse durante il caso Moro sono rivelatrici della crescente divaricazione, nei riferimenti all' antifascismo, tra uno spessore storico in continua diminuzione e un potere evocativo ancora pericolosamente forte. Il problema fu percepito da Craxi, quasi obbligato dalla situazione difficile del suo partito a intercettare i segni di novità che venivano dalla società italiana. Negli anni Ottanta, l' interesse politico verso l' antifascismo è declinato progressivamente, ma ciò non ha implicato la sua scomparsa. Proprio in questo decennio è diventato sempre più esplicito il nesso con la Shoah, lungamente trascurato dall' antifascismo politico, che amava commemorare i perseguitati politici del nazismo e del fascismo, ignorando le loro vittime per motivi razziali, culturali, sessuali o altro. È questo l' antifascismo che più meriterebbe di essere salvato dalla sua crisi attuale. freccia rossa che punta in alto

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