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Roberto bartali.it

Aprile 2004

5 Aprile 2004 (Ansa)- MITROKHIN: PRODI SU GRADOLI E SEDUTA SPIRITICA

Enzo Fragala', di An, ripropone , in commissione Mitrokhin, la questione della seduta spiritica a Zappolino, nella campagna Bolognese, dove all'inizio di aprile del 1978 Romano Prodi e altri professori bolognesi ebbero una indicazione dal 'piattino' che riguardava Gradoli, poi interpretata come la citta' nel viterbese e non come la via romana nella quale c'era la principale base delle Br nella capitale durante il sequestro Moro. L'esponente di An ha chiesto a Prodi, nel corso della sua audizione in commissione Mitrokhin, di rivelare quale fosse la sua fonte. "Lei ha una occasione storica: dica finalmente quale fu la fonte che venne celata dietro l'attivita' di un 'piattino' che spostandosi su un tavolo nel corso di una seduta spiritica avrebbe indicato il nome di Gradoli", ha detto. Prodi ha risposto affermando che la seduta che avvenne con le modalita' piu' volte illustrate dai partecipanti sia in sede giudiziaria sia davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta. "E' andata cosi' come e' stata raccontata. Non ho nulla da aggiungere. Rinvio ai verbali di quelle audizioni". Ma Fragala' ha insistito e facendo leva su una inchiesta pubblicata nell'ottobre del '99 dal settimanale 'Avvenimenti' ha ipotizzato che fonte di quella indicazione fosse il Kgb che l'aveva saputa da Morucci e Faranda, che si opponevano all'ala "militarista" delle Br guidata da Mario Moretti. "Prodi non ha saputo spiegare - ha detto successivamente Fragala' - come quelle indicazioni vennero raccolte. Ne' ha saputo dire perche', ad esempio, la seduta spiritica non si interruppe quando il 'piattino' arrivo' a costruire il nome di Grado che e' una localita' ben identificabile e conosciuta. Il problema e' che probabilmente la fonte di quella notizia era il Kgb. Veniva da Giorgio Conforto, padre di Giuliana Conforto che poi ospitera' a casa sua i due latitanti Morucci e Faranda e verra' scagionata da qualsiasi accusa nonostante a casa sua fosse stata trovata la mitraglietta che aveva ucciso Moro. Probabilmente si voleva coprire questa fonte. Tanto che alla fine la Conforto non venne condannata". freccia rossa che punta in alto

6 Aprile 2004: «I giudici avevano ragione, teorizzavamo la lotta armata» (Giovanni Bianconi)

PARIGI - Scalzone: Calogero sbagliò a pensare a una cupola del terrorismo. Ma un tumulto sociale spinse una forte minoranza a una sorta di guerra civile - «Eh già, venticinque anni... Le mie nozze d'argento con l'inizio della morte civile», dice tirando il fumo dell'ennesima sigaretta. Ma «morte civile» è un'espressione stonata in bocca a Oreste Scalzone, che in questo quarto di secolo ha continuato a parlare, scrivere e inveire. Meglio dire «le ultime ore di libertà vissute nel suo Paese», visto che allora cominciò un periodo di galera e di latitanza che dura ancora oggi, mentre è in prima fila nella battaglia contro l'estradizione del suo amico Cesare Battisti. Coincidenza curiosa: l'udienza della Corte d'appello di Parigi per decidere il destino dell'ergastolano italiano rifugiato in Francia è convocata proprio per domani, 7 aprile, data simbolo per la storia giudiziaria e politica d'Italia; quel giorno del 1979 scattò la maxi-retata contro i capi dell'Autonomia operaia accusati di associazione sovversiva, banda armata e - alcuni - di essere i veri capi delle Brigate rosse. Tra loro i principali leader del disciolto gruppo di Potere operaio: Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Emilio Vesce. Scalzone venne arrestato a Roma, nella sede della rivista Metropoli : «Dovevo scrivere una lettera sull'amnistia e un reportage sui funerali bolognesi di Barbara Azzaroni, una compagna del '68 passata a Prima Linea, uccisa in uno scontro a fuoco». Non scrisse niente perché la sera era già a Regina Coeli: «Cominciò il giro delle carceri, da Roma a Padova, poi Rebibbia, gli "speciali" di Cuneo e Palmi, Termini Imerese, poi ancora Rebibbia e Regina Coeli».
Davanti al pubblico ministero di Padova che coordinava l'inchiesta, Pietro Calogero, Scalzone cominciò a difendersi ponendo lui le domande: «Né rifiuto del giudice né difesa tecnica di fronte a chi ti accusa per quello che sei e non per ciò che hai fatto: io posso aver fatto questo, questo e questo, lei che cosa sceglie? Dopodiché tocca a lei trovare le prove, non a me dimostrare che non è vero». Allora il rivoluzionario sfidava il suo «inquisitore»; oggi, 25 anni dopo, rilegge i fatti così: «Calogero e gli altri hanno sbagliato per eccesso, ma anche per difetto. Il complotto, la cupola del terrorismo che tira le fila di tutte le sigle con Toni Negri nella parte del Grande Vecchio era una fantasma dietrologico, e dunque un eccesso. Ma l'esistenza di un tumulto sociale che noi tentavamo di organizzare, la teorizzazione della lotta armata anche se diversa da quella praticata dalle Br, compresi reati come rapine e gambizzazioni, erano tutte cose vere. Forse più diffuse e capaci di diffondersi di quanto immaginavano i magistrati». Nell'inchiesta «7 aprile», insomma, c'era del vero almeno sul piano storico, poiché esisteva «un vasto terreno di illegalità e militarizzazione che ha spinto una forte minoranza a una sorta di guerra civile a bassa intensità, ed era logico che lo Stato la contrastasse».
Il problema è - secondo il rivoluzionario di allora - che le prove portate dai magistrati (non solo a Padova, ma anche a Roma e Milano) non corrispondevano ai fatti come s'erano svolti o si potevano provare: «"Nego l'addebito ma non me ne sento diffamato" dissi allora e confermo oggi. Sono responsabile di altre azioni della stessa natura». Sarebbe a dire? «Partecipai alla prima rapina in banca nel '72, forzandomi a non pensare che cosa ne avrebbero detto gli altri dirigenti del gruppo; lo feci perché i soldi per la rivoluzione non potevano arrivare dai salari degli operai ma andavano presi dov'erano, e per contrastare l'attrazione fatale esercitata su tanti compagni dalla clandestinità. Entrai io con un compagno, armato di pistola. Negli anni successivi partecipai altre due o tre volte. E se pure ho avuto la fortuna di non dover sparare a qualcuno, mi sento la corresponsabilità diretta soprattutto di alcuni ferimenti firmati con sigle diverse, tra il '74 e il '76. Per esempio un'azione sul piazzale della Marelli contro il responsabile delle guardie; il giorno dopo ci fu lo sciopero ma noi eravamo lì a dire "né una lacrima né un minuto di salario per il capo degli sbirri padronali"».
Altri tempi, in cui c'erano pure i delitti firmati dalle Br. Ma Scalzone - risulta dalle stesse inchieste giudiziarie - stava su un'altra linea: «Eravamo contro l'attacco al cuore dello Stato perché sostenevamo che lo Stato non ha cuore. Era una questione teorica, non morale: se il tiranno non è una persona ma un sistema, l'omicidio politico è oltretutto inutile. Quindi non aver ucciso non è solo fortuna, ma questo non mi attribuisce alcuna legittimità etica superiore rispetto a chi abbia ucciso. Anzi, sono consapevole che con parole e scritti posso aver evitato dei morti, ma anche averne provocati degli altri». Mentre la giustizia italiana faceva il suo corso, il leader di Autonomia operaia scarcerato per motivi di salute («giunsi a pesare 39 chili, mi vennero un'ischemia e l'epatite») scappò all'estero: «Stava arrivando una nuova ondata di pentiti, mandai un messaggio ai compagni in prigione e organizzai l'espatrio. In Corsica mi portò Gian Maria Volonté con la sua barca. Dalla Francia, che allora estradava in un amen, giunsi in Danimarca attraverso il Belgio e l'Olanda. Solo dopo la vittoria di Mitterrand arrivai a Parigi, l'11 novembre 1981». Da allora Scalzone è un abitante della capitale francese: «A 57 anni è la città in cui ho vissuto di più nella mia vita». Qui ha subìto un arresto di 40 giorni prima che venisse negata l'estradizione e ha avuto notizia delle condanne italiane - quelle definitive arrivano a circa 12 anni di carcere - che cadranno in prescrizione alla fine di settembre. Allora potrebbe tornare in Italia da uomo libero, «ma l'esilio non mi pesa, anzi mi ha dato più di quanto mi ha tolto. E poi è proprio il rientro da libero che sono disposto a giocarmi offrendomi come ostaggio volontario».
Ora il discorso ritorna sui latitanti «rifugiati» che la Francia potrebbe estradare: «Vent'anni fa hanno moltiplicato condanne e condannati perché c'era un "crimine collettivo continuato" che metteva in pericolo la democrazia; oggi costruiscono l'identikit di un assassino trincerandosi dietro il comprensibile mancato perdono delle vittime e dei loro familiari». Sta parlando di Battisti e del nuovo «7 aprile» che vi aspetta? «Sì. E anche dell'alibi che si sono fatti per non parlare più di amnistia. Ma il perdono serve solo per la grazia, non per la soluzione politica che spetta al Parlamento. Comunque il caso Battisti riguarda la Francia e la parola data da questo Stato, la cosiddetta dottrina Mitterrand che nemmeno la destra francese di Chirac aveva sconfessato fino all'estradizione di Paolo Persichetti. Mitterrand voleva evitare che qualche centinaio di persone gettate nella clandestinità riprendessero la lotta armata qui o da qui; rinnegarla oggi significa dire che sbagliò chi allora decise di posare le armi». freccia rossa che punta in alto

Ancora su "Piombo Rosso" di G. Galli - (Giovanni Bianconi per il "Corriere della sera")

A Pisa li conoscono con i soprannomi di Billo e Trillo, due fratelli ultraquarantenni noti negli ambienti "antagonisti" della città. Il 24 febbraio scorso sono finiti in carcere con l'accusa di far parte delle nuove Brigate rosse, ora sono agli arresti domiciliari in attesa di conoscere il loro destino giudiziario. Nel frattempo, però, ad appena un mese dalla pubblicazione delle loro foto sui giornali circondati dagli agenti della Digos, sono finiti in un libro di storia. Si chiude infatti con la notizia dell'arresto di Fabio e Maurizio Viscido il libro Piombo rosso - Storia della lotta armata in Italia (1970-2004) scritto dal politologo Giorgio Galli, che nella stessa ultima pagina in cui cita i due pisani impiegati alle Poste e una strana lettera di minacce a Di Pietro recapitata proprio sotto la Torre pendente, chiosa: "Eventi minori e/o dubbi, mentre i Servizi (segreti, ndr ) che il 30 gennaio avevano escluso rapporti tra Br e anarchici insurrezionalisti, il 10 febbraio ipotizzano "colpi di coda" delle stesse Br. Un modo per mettere le mani avanti?". Una domanda che insinua già la risposta e che, posta alla fine delle 480 pagine, rappresenta la chiave di lettura del lavoro di Galli. Un libro pieno di fatti e date disseminati nell'arco di trentaquattro anni, che arriva al mese scorso partendo dal 5 ottobre 1970, quando i proto-terroristi del gruppo XXII ottobre rapirono a Genova l'imprenditore Sergio Gadolla. Già a metà degli anni Ottanta l'autore aveva pubblicato una Storia del partito armato (Rizzoli), ma in questa nuova opera, nella seconda metà, non c'è spazio solo per l'eversione di destra e di sinistra. Troviamo anche - citiamo a caso - l'arresto di Riina, l'omicidio di Ilaria Alpi, lo scandalo dei fondi neri del Sisde e perfino il doppio delitto con suicidio delle guardie Svizzere in Vaticano. Episodi che solo apparentemente nulla hanno a che vedere con la lotta armata, ammonisce Galli che, al contrario, v'intravede più di un nesso. Quanto meno nei protagonisti che spuntano di continuo lungo tutto il periodo preso in esame: i servizi segreti. La tesi del politologo che tratta anche la cronaca più recente come fosse già storia si respira quasi in ogni pagina: il terrorismo italiano ha avuto una genesi e uno sviluppo autonomi, ma se non veicolato è stato comunque orientato e "lasciato fare" da un apparato multiforme che si annida nelle istituzioni; una sorta di grumo nel quale a volte ricompaiono gli stessi personaggi, anche se con incarichi e gradi diversi, che dalla sua postazione ha cercato e forse cerca ancora di governare, indirizzare, sorvegliare (ognuno può usare il verbo che crede, a seconda di quanto è convinto della tesi) chi ha ucciso, ferito, distrutto per combattere quelle stesse istituzioni. Non un "doppio Stato", sostiene Galli, bensì "uno Stato nello Stato" che al dunque è rappresentato dai Servizi preposti a contrastare il terrorismo, ma che in realtà l'avrebbero soltanto guardato a vista e alla fine dei conti utilizzato in maniera diversa a seconda degli anni. "Capire questo Giano bifronte che vive in simbiosi con le istituzioni - scrive Galli - vuol dire capire la struttura e il funzionamento di un sistema di potere trasversale e di un processo politico che spiega la durata della lotta armata e la sua riapparizione. Quella che appare una storia infinita potrà finire, con la scomparsa di episodi di lotta armata, solo se e quando quella struttura e quel funzionamento siano stati corretti, dopo essere stati compresi appieno". Per provare a dare sostanza alla sua tesi, Galli riempie di avvenimenti gli undici anni di silenzio brigatista che vanno dall'omicidio di Roberto Ruffilli (1988) a quello di Massimo D'Antona (1999). Fatti che non si fermano agli attentati dinamitardi dei Nuclei comunisti combattenti (1992 e 1994) che poi si trasformeranno in Brigate rosse, ma includono, appunto, episodi più o meno misteriosi che vanno dalla lotta alla mafia alle vicende interne agli 007, anche sotto i governi dell'Ulivo. "Tra queste molteplici gestioni - sostiene l'autore - vi è stata anche quella volta a tener vivo, sotto la cenere, il focherello della lotta armata, i rapporti tra i capi delle Br in carcere e i nuovi sparuti adepti, attratti sia dalla emarginazione sociale che dalla leggenda brigatista". Come dire che quel che è accaduto non è solo frutto della volontà di chi è tornato a sparare. E dunque - anche ora che polizia e magistratura sembrano essere sulla strada di venirne a capo, come accadde alla fine degli anni Ottanta - potrebbe accadere di nuovo. freccia rossa che punta in alto

Esce "PIOMBO ROSSO" Di Giorgio Galli (Andrea Colombo per "Il Manifesto")

Non è certo la prima "storia della lotta armata in Italia". Ma è l'unica, per ora, a portare la narrazione oltre la sconfitta degli ultimi drappelli brigatisti, alla fine degli `80, per affrontare anche la resurrezione recente. Alla vicenda delle nuove Br, agli omicidi D'Antona e Biagi, all'arresto di Nadia Lioce e all'uccisione di Mario Galesi, il politologo Giorgio Galli dedica anzi quasi metà del suo corposo Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi (Baldini Castoldi Dalai Editore, pp. 479, €16.80). Sul terrorismo italiano di sinistra Galli aveva già scritto, oltre a numerosi articoli, uno dei pochi libri da non scartare nella foltissima bibliografia sull'argomento, Storia del partito armato, pubblicato nel 1986. Nonostante il titolo, sulle formazioni armate Galli aveva in quel volume poco da dire, e nulla che non fosse già stato scritto dai giornalisti che si occupavano del problema sin dai `70, primo fra tutti Giorgio Bocca nel suo insuperato Noi terroristi. In compenso il politologo aveva davanti a sé un terreno che era (e in larga misura è ancora) del tutto inesplorato: la vicenda non del partito armato, ma di quelli ufficiali alle prese con il terrorismo, le reazioni del sistema politico all'impatto imprevisto delle armi, le sterzate che l'irrompere del terrorismo determinò nella strategia delle principali forze politiche, l'uso, anche strumentale, che i partiti della prima repubblica fecero della lotta armata. Non si trattava allora, e non si tratta oggi, di un aspetto secondario. A fronte del diluvio di testimonianze, racconti, interviste, e autobiografie degli ex terroristi, corrisponde l'impressionante silenzio del sistema politico di allora, dei suoi leader come degli ufficiali di seconda fila. La memorialistica degli ex militanti armati potrebbe riempire un'intera biblioteca. Quella dei leader politici, certo non meno coinvolti, la conterrebbe agevolmente uno smilzo volumetto. Difficile capire, di conseguenza, perché si insista nel chiedere ai loquacissimi ex terroristi di "parlare", senza disturbare mai gli ammutoliti e presumbilmente omertosi "uomini di stato", che pure della tragica vicenda sono stati interpreti altrettanto centrali. Il primo libro di Galli infrangeva quel muro di silenzio, puntava l'obiettivo sulle azioni e sulle reazioni dei governi e dei partiti. Un modello rimasto purtroppo inimitato, e che è adesso ripreso dallo stesso Galli, potendo contare, a quasi vent'anni di distanza dal saggio precedente, sulle numerosissime testimonianze e sui lavori degli ex Br. In particolare si avvale dei libri firmati da Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti, Renato Curcio, Alberto Franceschini, Mario Moretti nonché della monumentale ricerca in tre volumi La mappa perduta, coordinata dallo stesso Curcio. Anche in Piombo rosso, il taglio del politologo consiste nel prendere in esame più che la lotta armata, il ruolo della controparte. Non più però lo stato e il sistema dei partiti ma quello "stato nello stato" che, a suo parere, è rappresentato in Italia (e non solo) dai servizi segreti. La definizione di "stato nello stato", coniata per i Templari, è a suo parere la migliore per definire la casta separata e potente dell'intelligence. Una casta, chiarisce Galli, che non si oppone allo stato, anzi spesso lavora, o ritiene di lavorare, per stabilizzarlo, ma che si muove in quasi totale autonomia. La tesi fondamentale del libro, ripetuta praticamente in ogni capitolo, è che i servizi si siano effettivamente avvalsi del terrorismo rosso. Non però, come nelle abituali ricostruzioni fantasiose, attraverso una gestione diretta del "partito armato", ma, più semplicemente, grazie a una collaudata strategia di "stop and go". Sulla matrice rivoluzionaria delle organizzazioni clandestine, l'autore dichiara a tutte lettere di non avere dubbi. Liquida come paccottiglia le voci sul presunto ruolo ambiguo di Mario Moretti, che definisce con mirabile sinteticità "un rivoluzionario onesto". In compenso è convinto che i servizi segreti abbiano seguito passo passo i gruppi armati sin dalle prime azioni, nel 1970, e che abbiano di volta in volta, a seconda delle esigenze politiche del momento, scelto se fermarli, come dopo il sequestro Dozier del 1982, oppure lasciarli agire. Una simile impostazione rappresenta una sfida pericolosa. Si tratta di percorrere il sentiero stretto e accidentato che sta tra una giusta e probabilmente giustificata sospettosità e il consueto delirio paranoide noto come "dietrologia". In sé, l'ipotesi di Galli è tutt'altro che increbile, e non è mai stata esclusa neppure dagli ex brigatisti. Una serie di indizi, soprattutto per quanto riguarda la prima fase della lotta armata, sembrano suggerire che una simile strategia da parte dei servizi segreti possa essere stata davvero messa in opera. Tuttavia concludere, sulla base di quei comunque limitati indizi, che gli spioni nostrani avrebbero potuto arrestare i terroristi rossi in qualsiasi momento avessero voluto dal 1970 in poi è una forzatura difficilmente giustificabile. Quanto meno significa sottrarsi all'onere della prova. Un esempio per tutti. Renato Curcio fu fermato e poi rilasciato subito dopo la strage di piazza Fonatana, il 12 dicembre 1969. La stessa cosa accadde, come è facilmente comprensibile, a numerosi altri militanti di estrema sinistra in quei giorni. Dedurne che le Br erano sotto controllo sin da prima della loro nascita risulta pertanto un po' forte. In realtà non tutti gli indizi elencati da Galli sono altrettanto fragili, sia pur tutt'altro che definitivi. Almeno sino al sequestro Moro l'autore riesce a sottrarsi come pochi altri alle sirene della dietrologia. Ma quando si arriva a via Fani quel richiamo diventa troppo forte, ed ecco tornare in campo tutti i misteri, nessuno escluso. E' un peccato che, tra i numerosi volumi consultati e citati manchi l'Odissea nel caso Moro scritta da Vladimiro Satta, risultato di una lunghissima ricerca sui materiali orginali a disposizione delle commissioni parlamentari che si sono occupate del mistero italiano per eccellenza. Lì Galli avrebbe trovato molte e documentate risposte, per esempio a proposito della scoperta del covo di via Gradoli. Il sequestro Moro è tuttavia l'unico capitolo del libro in cui Galli cada nella dietrologia pura. La sua ipotesi è che Moretti abbia trattato con i servizi segreti, offrendo i materiali orginali degli interrogatori del prigioniero in cambio del semaforo verde per portare a termine l'operazione Fritz. Da quel momento, l'intera strategia di Moretti sarebbe stata condizionata da quel patto diabolico con i servizi. Sarebbe rimasto un "rivoluzionario onesto", ma non più libero di agire a suo piacimento. E' una variante delle fantasiose ricostruzioni "alla Flamigni", e come quelle è basata su una inesistente sostanza. Lo scarto rispetto ai modelli precedenti è tuttavia interessante perché risponde alla necessità, questa invece fondata e dimostrata nel libro, di rispettare la verità storica sul Moro politico. Un leader, come Galli dimostra, che non si accingeva a far entrare il Pci "nella stanza dei bottoni", ma a soffocarlo nel suo abbraccio mortale. Un uomo di stato italiano che non era affatto inviso all'amministrazione americana negli anni della presidenza Carter. Un democristiano che nessuno aveva interesse a eliminare per bloccare la luminosa "via italiana al socialismo". Il caso Moro è un incidente di percorso. Subito dopo l'autore si stacca nuovamente dalla dietrologia crassa, e l'ultima parte del suo libro, quella dedicata al presente, è certamente la migliore. Qui, senza doversi preoccupare di non ripetere quanto già scritto nell'86, Galli può spaziare nella materia in cui si muove meglio. L'analisi dell'utilizzazione politica degli omicidi D'Antona e soprattutto Biagi da parte dei partiti della seconda repubblica è da manuale, e insiste a lungo sull'uso fatto dai media e dai partiti di governo dell'omicidio Biagi - col silente beneplacito, come giustamente sottolinea l'autore, della leadership diessina - per bloccare l'ascesa di Sergio Cofferati. La tesi sostenuta a proposito del ruolo dei servizi nei `70 è qui ripetuta rafforzata. Per Galli è impensabile che l'intelligence non tenesse sotto controllo il drappello esiguo delle nuove Br, che non potesse e non possa arrestare subito un gruppo così sbrindellato e dilettantesco. Ma l'accento cade con assai maggior incisività sulla costruzione, da parte dei media e del sistema politico, di un'emergenza inesistente, sull'amplificazione estrema di una minaccia assai limitata e, solo a volerlo, facilmente disinnescabile. Al punto che persino una vittoria netta delle forze dell'ordine, l'arresto della Lioce, viene contrabbandata come motivo di ulteriore allarme. E' un'operazione di verità opportuna e necessaria, ma che mette in evidenza un non risolto nodo centrale nella teoria di Galli. Anche ammesso che i servizi, lo "stato nello stato", abbiano in alcune fasi effettivamente praticato la strategia dello "stop and go", le reazioni dello stato propriamente detto al terrorismo non sono tuttavia determinate dai servizi medesimi. Ma sono proprio quelle reazioni e quelle strumentalizzazioni l'elemento determinante, la zona oscura, piena di silenzi, omissioni e reticenze, nella storia della vicenda armata in Italia. freccia rossa che punta in alto

9 Aprile 2004: IL RUOLO DEL KGB NEL SEQUESTRO MORO: VALERIO MORUCCI ERA MEMBRO DI UNA INTERNAZIONALE DEL TERRORE DIRETTA "CARLOS" - IL DOPPIO RUOLO DEL PCI: L'ALA FILOSOVIETICA AIUTO' AD ESPATRIARE I BRIGATISTI. (Giovanni Fasanella per Panorama)

La mano e la mente del Kgb, il potente servizio segreto dell'ex Unione Sovietica, nel sequestro di Aldo Moro? Quasi 20 anni di indagini e sei processi, terminati con decine di condanne all'ergastolo; ma a 26 anni dall'eccidio di via Fani una parte della famiglia ritiene che non tutta la verità sia stata accertata. E chiede che il caso venga riaperto. Una formale istanza è già stata presentata alla procura romana dall'avvocato Nino Marazzita, a nome di Maria Fida, figlia dello statista democristiano. In un primo momento, anche la vedova di Moro, Eleonora, aveva avallato l'iniziativa legale. Ma poi ha preferito farsi da parte, in seguito ai contrasti insorti con gli altri figli, Giovanni e Agnese, contrari all'iniziativa di Maria Fida. L'ipotesi investigativa alla base della richiesta, e cioè il coinvolgimento dei servizi segreti dell'Est, è suffragata da una valanga di nuovi elementi emersi soltanto dopo la caduta del Muro di Berlino, perciò ignoti ai magistrati che si occuparono delle prime inchieste, Rosario Priore e Ferdinando Imposimato. Si tratta di materiale di diversa provenienza, soprattutto archivio Mitrokhin, attività di intelligence italiana e indagini della magistratura francese. E proprio Imposimato, su incarico di Maria Fida Moro e dell'avvocato Marazzita, si è preoccupato nei mesi scorsi di rovistare nelle pagine di migliaia di documenti per raccogliere ogni elemento utile alla riapertura delle indagini. Il primo elemento di novità riguarda Valerio Morucci, leader della colonna romana delle Brigate rosse e uno degli organizzatori del sequestro Moro, insieme a Mario Moretti. Secondo documenti inviati in Italia dalla magistratura francese, era membro di una vera e propria internazionale del terrore diretta da Ilich Ramirez Sanchez, il famigerato terrorista venezuelano meglio noto alle cronache con il nome di battaglia "Carlos". L'organizzazione si chiamava Separat ed era una sorta di braccio operativo della strategia terroristica del Kgb e dei servizi segreti a esso collegati, in primo luogo la Stasi della Germania Est e l'Stb della Cecoslovacchia. Morucci, come si ricorderà, venne arrestato con la sua compagna Adriana Faranda nel maggio 1979, in un appartamento di viale Giulio Cesare, a Roma. Aveva con sé la mitraglietta di fabbricazione cecoslovacca Skorpion con la quale un anno prima, la mattina del 9 maggio 1938, era stato assassinato Moro. E l'appartamento in cui venne sorpreso dalla polizia era di proprietà dell'astrofisica Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto. Questi, stando al dossier Mitrokhin, pubblicato molti anni dopo, all'epoca dell'operazione Moro era uno degli agenti del Kgb più importanti in Europa: capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia. Ma un ruolo ancora più importante lo avrebbe svolto un capitano del Kgb, Sergej Fédorovich Sokolov, inviato in Italia alla vigilia del sequestro, nel novembre del 1977. Sokolov cominciò a frequentare le lezioni di Moro all'università. E, tra una lezione e l'altra, si informava sulle abitudini del suo professore, sui suoi spostamenti, sui luoghi frequentati abitualmente, sulla consistenza della sua scorta, sui suoi viaggi all'estero. Non appena si diffuse la notizia dell'agguato in via Fani, la mattina del 16 marzo 1978, Franco Tritto, uno degli assistenti di Moro, si ricordò di quello strano studente russo e avvertì l'allora sottosegretario all'Interno, Nicola Lettieri. Ai giudici che indagavano sul sequestro i servizi Italiani negarono ogni notizia su Sokolov. Una scarna informativa fu inviata loro dal Sismi soltanto qualche anno dopo. E con gravi omissioni. Non si accennava minimamente, infatti, al ruolo di Sokolov nel Kgb e si postdatava all'81-82 il periodo della sua presenza a Roma, "come corrispondente della Tass". Lo studente curioso delle abitudini di Moro era invece il capo della V sezione del Kgb, specializzata in sequestri e omicidi. Perché i servizi italiani tennero quel comportamento è un altro degli interrogativi a cui Maria Fida Moro sollecita una risposta da parte della magistratura. Lettieri, scomparso di recente, presiedeva uno strano comitato di crisi istituito al Viminale da Francesco Cossiga, allora titolare all'Interno. Ufficialmente, quel comitato doveva elaborare le strategie per risolvere il sequestro. In realtà, come si è appurato molto tempo dopo, funzionò solo da cordone sanitario attorno al ministro, per impedirgli qualsiasi movimento. Comprese eventuali iniziative per salvare la vita del presidente democristiano, prigioniero delle Br. Il sospetto di Maria Fida Moro, del suo avvocato e del suo consulente, Imposimato, è che quel comitato abbia interagito con i brigatisti rossi per indurli a uccidere l'ostaggio. Un esito gradito tanto ai sovietici, ispiratori e organizzatori del sequestro, quanto ai settori più oltranzisti degli apparati d'intelligence americani. Ad avvalorare il sospetto sono innanzitutto alcuni dei personaggi che facevano parte di quel comitato: due agenti Cia, l'esperto americano di antiterrorismo Stephen Pieczenik e lo psichiatra Franco Ferracuti, e quello che secondo il dossier Mitrokhin sarebbe stato un collaboratore del Kgb col nome in codice "Nino" e che corrisponderebbe a un noto analista di strategie internazionali. Un altro punto di particolare Interesse dei lavoro svolto da Imposimato riguarda, infine, la dialettica interna del Pci all'epoca del caso Moro. Un aspetto mai indagato e che potrebbe riservare molte sorprese. Secondo l'ex giudice, ci fu una violentissima resa dei conti tra i berlingueriani e l'ala fedele a Mosca. I primi, attraverso l'ufficio diretto da Ugo Pecchioli, collaborarono con i nuclei antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e con i servizi segreti, fornendo ogni sorta di informazioni sulle Br. Compreso il nome del musicista di origine russa Igor Markevic, l'artista legato al Kgb che durante i 55 giorni del sequestro potrebbe aver ospitato nella sua casa fiorentina l'esecutivo delle Br. A soffiare il suo nome all'orecchio del controspionaggio italiano sarebbe stato proprio Pecchioli. I filosovietici, invece, avrebbero offerto assistenza ai brigatisti. Facendo anche espatriare all'estero due di loro: Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. freccia rossa che punta in alto

16 aprile 2004 (La Padania) - The Prodi's comedy comic, ossia la storia semiseria di via Gradoli.

Primo tempo - Ambientazione: Primavera '78. Moro è rinchiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Prodi sta partecipando a una seduta spiritica in quel di Bologna. Circostanza confermata martedì della settimana scorsa deponendo, come «persona informata dei fatti», alla Commissione parlamentare d'inchiesta Mitrokhhin (è scritto su tutti i giornali... anche "la Repubblica" ). A un certo punto il tavolino comincia a tremare e qualcosa si muove. Chi è, anzi chi sono? Semplice, elementare Watson: gli spiriti inquieti di don Sturzo e La Pira. La tensione fra gli astanti sale a livelli galattici: il piattino (metallico, piccolo ma dalla forma di un disco volante) si muove verso foglietti di carta igienica con le lettere dell'alfabeto. E, alla fine, viene fuori una scritta: "Gradoli". Prodi trattiene il respiro, va quasi in apnea irreversibile ma poi, come fulminato sulla via di Damasco (dove, con ogni probabilità lo aspetta il suo amico profeta Maometto), ha una formidabile intuizione: è il posto dove i brigatisti tengono rinchiuso Moro. In tempo reale passa la "notizia", la cui "fonte", per lui, era fuori discussione, a tutte le forze dell'ordine, ai servizi segreti e all'Esercito della salvezza islamica. Tutti si danno un gran daffare. Ma prendono una sonora cantonata: invece di andare a cercare Moro in via Gradoli a Roma (dove Moro era stato effettivamente rinchiuso: si è scoperto grazie alla complicità di un rubinetto che perdeva), vanno su "per le montagne", sugli appennini, in un paesino dal nome omonimo: Gradoli. C'è un lago e un comunicato delle Br falso (ma chi l'avrà mai scritto? Gli spiriti di don Sturzo e La Pira? Il mistero è fitto...) dice che Moro è sul fondo. Il lago "della duchessa" è ghiacciato. Rompono il ghiaccio ma, di Moro, nemmeno l'ombra. Secondo tempo. Ambientazione: un'austera aula del parlamento. Prodi sta deponendo alla Commissione d'inchiesta Mitrokhin e, tra un'infinità di «non so», «nessuno me l'ha detto», «non ricordo», «non c'ero e se c'ero dormivo», una cosa dice di ricordarsela, sia pure obtorto collo: il capo del Sismi, gen. Siracusa, che aveva nominato lui, gli chiede un «colloquio urgente e riservato». Prodi, democraticamente, lo riceve o lo ascolta e Siracusa, dice Prodi, gli avrebbe parlato vagamente di un'indagine in corso. Prodi, sempre democraticamente, dice al capo del Sismi: «Vada avanti». VOCE FUORI CAMPO. Attenzione, o spettatori! In casa del figlio del "referente" italiano del Kgb (sempre su tutti i giornali) vengono arrestati Morucci e la Faranda. EPILOGO. Ma la parola "Gradoli", a Prodi, chi gliel'ha suggerita: gli spiriti di don Sturzo e di La Pira o qualcuno d'altro? Non c'è problema. Quelli della maggioranza nella Commissione Mitrokhin si sono messi in mente di riascoltare Prodi come "testimone" e messo a confronto con il generale Siracusa. Dettaglio: se Prodi non cambia musica, ovvero lascia stare i santi e dice la verità, può essere incriminato, con invio degli atti alla magistratura, per reticenza e falsa testimonianza. Si ricorda agli spettatori anche che una Commissione parlamentare d'inchiesta ha gli stessi poteri d'indagine della magistratura. freccia rossa che punta in alto

20 aprile 2004 - L'INTERVISTA DI MARIA FIDA MORO A TELE SERENISSIMA

(Il Gazzettino) Intervista alla figlia Maria Fida "Aldo Moro era salito sull'Italicus"
Maria Fida Moro ha rivelato ieri un particolare inquietante. Suo padre, il 4 agosto 1974, era salito sul treno Italicus, ma prima di partire venne fatto scendere per firmare delle carte. Poche ore dopo ci fu la strage sull'Appennino. Il vero obiettivo era Aldo Moro? L'obiettivo della strage dell'Italicus ... L'obiettivo della strage dell'Italicus sarebbe stato Aldo Moro. Un'ipotesi inquietante che, a trent'anni dall'attentato che provocò una strage, viene avanzata dalla figlia dello statista democristiano, Maria Fida Moro. L'annuncio choc è stato dato ieri sera nel corso di una trasmissione di Tele Serenissima, alla quale era presente anche Luigi Bacialli, direttore del Gazzettino. È stata la stessa Maria Fida Moro a telefonare e spiegare al conduttore Gianluca Versace che quel giorno (il 4 agosto del 1974) suo padre era addirittura salito sul treno alla stazione di Roma e stava per partire, quando all'ultimo momento un suo collaboratore gli disse di scendere per firmare alcune carte. Così il treno partì senza di lui. Poche ore dopo, quando l'Italicus percorreva la lunga galleria appenninica di San Benedetto Val di Sambro, una bomba ad orologeria esplose provocando la strage rivendicata da Ordine Nero. Per Moro il destino riservava un'altra morte violenta: il 9 maggio del 1978 venne ucciso dalle Brigate Rosse, dopo un lungo periodo di prigionia.
L'episodio è anche raccontato nel libro "La Nebulosa del caso Moro" che sta per uscire. "Alla fine del libro ho citato un episodio tanto vero quanto non suffragabile, mio padre salì e scese immediatamente dall'Italicus. Fino all'ultimo ero in forse se inserirlo nel volume perché ero certa che sarebbe stato strumentalizzato, ma non prima che "La nebulosa" fosse in libreria". Maria Fida Moro ha fatto capire di non aver mai rivelato prima questa clamorosa versione sulla strage dell'Italicus, perché sconsigliata da persone a lei vicine. Il collegamento, tra la presunta presenza di Moro e la strage sul treno, non era mai emerso.

La figlia dello statista, Maria Fida, ha rivelato un episodio, finora ignoto, che verrà raccontato in un libro. Spunta un'ipotesi inquietante Moro era salito sul treno "Italicus" "Venne fatto scendere per firmare delle carte" - Dopo poche ore ci fu la strage nella grande galleria appenninica Maria Fida, la figlia del presidente della Dc, lei stessa già parlamentare, da ventisei anni presidia la memoria del papà. E vuole la verità: con l'ex giudice Ferdinando Imposimato e l'avvocato Nino Marazzita chiede la riapertura dell'inchiesta sulla tragedia che ha travolto la sua famiglia.L'abbiamo intervistata.

Gianluca Versace freccia rossa che punta in alto

21 aprile 2004 - MORO E ITALICUS: PELLEGRINO

(Il Gazzettino) - PELLEGRINO (DS) Moro sull'Italicus? "Verosimile" Roma - L'ipotesi di un attentato a Moro nel 1974 "potrebbe essere verosimile". È il giudizio di Giovanni Pellegrino, ex senatore diessino, per due legislature presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia, un'autorità sui misteri degli "anni di piombo". A Pellegrino, dopo anni di indagini e un milione di pagine sull'argomento, "giunge del tutto nuova" la circostanza narrata da Maria Fida Moro, secondo la quale lo statista democristiano era a bordo del treno Italicus il giorno della strage (4 agosto 1974) ma ne uscì per firmare alcune carte. E il treno partì senza di lui, verso un destino di morte.
"Riguardo all'Italicus - dice l'ex senatore - ricordo bene che Almirante, prima della strage, lanciò un allarme su possibili attentati a treni. Di Moro in relazione all'Italicus non ho mai sentito parlare, la cosa mi giunge nuova. Può darsi anche che sia un mio difetto di memoria, ma in nessuna delle relazioni che ho scritto ricordo un accenno a questa circostanza". Tuttavia Moro era un personaggio di eccezionale statura politica, potenziale bersaglio per chiunque avesse voluto destabilizzare il nostro Paese. "Moro - prosegue Pellegrino - è indubbiamente una figura intorno alla quale i vari nodi della strategia della tensione si aggrovigliano. È il passaggio dal primo al secondo governo Moro che attiva le tensioni del "piano Solo" (il "rumor di sciabole" annacquò nel 1964 il primo esperimento di centrosinistra, ndr). Senza voler prendere partito per la tesi sulla natura golpista del "piano Solo", non c'è dubbio che quello fu un momento di tensione istituzionale che ruotava intorno a Moro. Subito dopo la strage di piazza Fontana fu Barca (dirigente del Pci ndr) ad avvertire Moro di tornare in Italia con una qualche prudenza. Moro torna in Italia con qualche prudenza e nei giorni immediatamente successivi incontra Saragat. Ora questa circostanza legherebbe Moro anche alla tensione del 1974. Io per la verità ho sempre visto quelle del 1974 come stragi "reattive", con gruppi della destra e settori delle istituzioni che cercavano di rilanciare il piano eversivo del 1969-70, mentre in realtà il mondo stava cambiando. Mi sembravano colpi di coda". Il 17 maggio 1973 una bomba a mano fu lanciata nel cortile della questura di Milano in via Fatebenefratelli, mentre si ricordava il primo anniversario dell'uccisione del commissario Calabresi: vi furono 4 morti e 45 feriti. La sentenza del 2000 attribuì la responsabilità ad Ordine nuovo. "Probabilmente - osserva Pellegrino - con la strage di via Fatebenefratelli si è voluto punire Rumor perché non aveva dichiarato la stato di emergenza dopo piazza Fontana. Se fosse vero che Moro doveva essere tra le vittime dell'Italicus, il fatto potrebbe essere interpretato come un tentativo di punire Moro per il suo ruolo di protagonista nella tenuta democratica delle istituzioni dopo piazza Fontana. In questo senso l'ipotesi di un attentato a Moro nel 1974 potrebbe essere verosimile".Assai più scettico l'anziano leader moroteo Luigi Gui. "Di questa vicenda - dice dall'alto dei suoi 89 anni - non ho mai sentito nulla e sarei molto prudente nell'accostare la strage dell'Italicus al caso Moro". freccia rossa che punta in alto

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