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Roberto bartali.it

Maggio 2004

4 maggio 2004 - «Curcio mi disse: sono certo che Moretti è una spia»
La storia del gruppo riletta da uno dei fondatori tra infiltrazioni, doppi fini e regia del Superclan

Per il vecchio «padre fondatore» delle Brigate rosse, gli epigoni che a trent'anni di distanza hanno firmato con la stessa sigla e lo stesso simbolo gli omicidi di Massimo D'Antona e di Marco Biagi «si nutrono di un mito». Quale? «La rivoluzione comunista, che in Italia è così duro a morire. Sopravvive persino alla caduta del Muro di Berlino e alle tragedie dell'Est». Ma quel «padre fondatore», al secolo Alberto Franceschini, da tempo ormai legge la storia delle Br vecchie e nuove con occhiali diversi da quelli degli altri compagni d'armi, che siano «ex» o militanti ancora in servizio. E interpreta l'evoluzione della principale organizzazione armata italiana come una vicenda di infiltrazioni e doppi fini. Se non tripli o quadrupli. Vecchie tesi, che l'ex-brigatista è andato via via affinando fino a retrodatare nel tempo i suoi sospetti. Per l'esattezza al 1972, dopo che le Br avevano fatto la loro comparsa tra Milano e Torino: «Avevamo l'impressione che qualcuno ci proteggesse. Avevamo la sensazione precisa che la polizia non volesse scoprire certe nostre basi, che non volesse arrestare tutti i compagni». E' una delle tante risposte che Franceschini dà al giornalista Giovanni Fasanella nel libro firmato a quattro mani per l'editore Rizzoli Che cosa sono le Br, con postfazione del giudice Rosario Priore. Ne viene fuori una controstoria del partito armato che va oltre la sensazione di essere stati protetti e tollerati fin dagli albori, per arrivare all'idea di essere stati utilizzati. Non dallo Stato, né dal Grande Vecchio venuto dall'Est (almeno non nella grossolana versione di cui si discettava in passato), ma da un signore misterioso che avrebbe «giocato» con le Br costruendo intorno a sé una specie di setta e mettendosi a disposizione di chissà quanti e quali servizi segreti, allo scopo (riuscito) di far crescere e indirizzare l'organizzazione terroristica che ha destabilizzato l'Italia giungendo a commettere il delitto politico più dirompente, che ha cambiato la storia del Paese: l'omicidio di Aldo Moro.
Quell'uomo - è noto, perché sono anni che Franceschini ne denuncia il nome - si chiama Corrado Simioni, fiancheggiò le Br all'atto della loro nascita con il suo Superclan, poi le infiltrò inviando nel gruppo un proprio rappresentante: Mario Moretti, che dal '74 (anno dell'arresto di Curcio e Franceschini) prese in mano la guida dell'organizzazione. Anche le accuse di Franceschini a Moretti sono note. Meno nota è la chiamata in causa di Curcio negli stessi sospetti. Franceschini inscrive nella scalata di Moretti fino a diventare il capo unico e incontrastato delle Br anche il tentato omicidio di un altro brigatista della prima ora, Giorgio Semeria, che dopo il suo arresto (1976) mandò un biglietto in carcere: «Guardate che Mario è una spia».
Curcio e Franceschini ricevettero insieme il messaggio, e oggi Franceschini rivela che il suo vecchio amico e compagno gli confessò nel cortile del carcere: «Giorgio ha ragione, sono certo che Moretti è una spia». Due brigatisti furono incaricati di svolgere un'indagine interna, ma non vennero a capo di niente. Moretti restò al vertice del gruppo (nel quale, secondo Franceschini, Simioni aveva infiltrato al suo fianco anche un secondo reduce del Superclan, Prospero Gallinari) e condusse le Br al sequestro e all'omicidio Moro: «Se dovessi datare l'inizio dell'escalation della violenza brigatista, direi che coincide proprio con l'arrivo di Moretti, perché lui ci spinge continuamente ad alzare il tiro». Come nel 1974, quando le Br rapirono il giudice Sossi e Moretti voleva uccidere l'ostaggio anziché rilasciarlo, stando alla ricostruzione dell'ex-br che con Mara Cagol, moglie di Curcio, teneva segregato il magistrato. Sossi si salvò, anche se una trattativa col Vaticano condotta tramite l'ex-democristiano di Reggio Emilia Corrado Corghi, vecchia conoscenza dei brigatisti cresciuti in quella città, si interruppe senza apparenti motivi. E per il Franceschini di oggi l'operazione tentata allora da Moretti non fu che la prova generale di quel che sarebbe accaduto col sequestro Moro. Tra il '74 e il '78 avvengono una serie di fatti che per l'ex-br rappresentano la spina dorsale della sua controstoria: dal doppio arresto di quell'anno all'evasione fin troppo facile di Curcio del '75. Ma poi «i suoi rapporti con Moretti si fanno sempre più tesi. Uccidono la moglie di Renato, Mara, e Curcio viene nuovamente arrestato». Per Franceschini la stessa Cagol aveva scoperto strani rapporti tra Simioni e il «golpista bianco» Edgardo Sogno. Lui e Mara volevano addirittura ucciderlo, Simioni, invece morì la donna, «e certamente la morte di Mara è anche un pesante avvertimento a Curcio... Dopo, Renato torna in carcere e si chiude in se stesso, non parla più con nessuno».
Il resto lo fanno le Br di Moretti, che per Franceschini, non sono che le Br di Simioni e del suo Superclan evolutosi nella «scuola Hyperion» di Parigi, considerata una centrale di spionaggio internazionale che aveva ereditato anche i rapporti internazionali di Giangiacomo Feltrinelli, protetta perfino attraverso un libro intervista allo stesso Moretti, curato da Rossana Rossanda, edito da una casa editrice guidata da un ex-membro del Superclan. Per Franceschini tutto si tiene, anche se viene da chiedersi perché mai tra tanti pentiti e dissociati nessuno abbia mai svelato simili segreti e sospetti, mentre oggi a dar credito alla sua controstoria si aggiunge l'ex-giudice istruttore del terrorismo rosso Priore. Il quale propone una domanda che esprime rammarico e suona polemica: perché quel Simioni nato e cresciuto a Milano prima di riparare in Francia, fu oggetto di indagini a Roma e in Veneto «ma non fu preso in degna considerazione dalla magistratura milanese?». - Giovanni Bianconi freccia rossa che punta in alto

5 maggio 2004 - Corriere della Sera
Il proclama della Lioce: colpire ancora
Nuovo messaggio della brigatista dal carcere: la lotta armata non è finita. Citato anche il ruolo dell'Italia in Iraq

FIRENZE - Le Brigate rosse non sono finite, rappresentano un «punto di non ritorno» nella storia italiana e non saranno la «propaganda» del potere né le strategie anti-eversione messe in campo da polizia e magistratura a fermarle. E' il messaggio che la brigatista Nadia Desdemona Lioce lancerà oggi dalla gabbia dell'aula bunker di Firenze dove viene processata per l'omicidio del sovrintendente della Polfer Emanuele Petri, ucciso nello scontro a fuoco in cui morì anche il compagno d'armi della donna, Mario Galesi. Un proclama preparato con cura, incentrato sul «ruolo e la storia delle Br», come anticipato dal suo avvocato, Attilio Baccioli, ma con ampi riferimenti alla situazione internazionale, alla guerra in Iraq e al coinvolgimento dell'Italia in quel conflitto. Nadia Lioce l'ha letto e riletto tra sé durante le prime due udienze e oggi lo farà allegare agli atti del processo, come «dichiarazione spontanea». Poi tornerà al rituale silenzio col quale i brigatisti seguono i giudizi a loro carico. «Gli avanzamenti attuati dalle Br-pcc sul piano del processo rivoluzionario nel nostro Paese - ha scritto la Lioce nel documento -, con il rilancio della strategia della lotta armata per il comunismo, sono processi politici reali, che segnano un punto di non ritorno e trovano sempre il modo di farsi strada nello scontro di potere tra classi». Come dire che le possono arrestare i militanti, ma ce ne saranno sempre altri pronti a impugnare il testimone come lei e altri hanno fatto alla metà degli Anni Novanta, quando i Nuclei comunisti combattenti decisero di fare il salto per riportare alla ribalta il nome e il simbolo delle Br. L'analisi tiene conto anche di ciò che accade fuori dai confini nazionali, e Nadia Lioce scrive: «Sul piano degli equilibri internazionali, la strategia di dominio e di guerra accelerata dal polo dominante Usa ha dimostrato tutti i suoi limiti, in particolare a fronte di una resistenza nazionale irachena che, immaginata residuale rispetto alla rapida invasione anglo-Usa, si è trasformata in una guerra di popolo per la liberazione del Paese dall'occupazione imperialista». Nel ruolo di occupante le Br inseriscono anche l'Italia, e la militante chiusa in gabbia cita «le truppe italiane di Nassiriya che si sono rese direttamente responsabili di una strage di civili». In questo contesto, tra gli slogan finali del documento compare anche un «Viva la guerra di liberazione nazionale irachena» insieme all'appello «Proletari di tutti i Paesi, uniamoci», oltre al tradizionale omaggio alla memoria del «compagno Mario Galesi» e di «tutti i militanti antimperialisti caduti». Dal carcere arriva dunque, con la firma di colei che viene considerata un «capo carismatico» dell'organizzazione, l'invito ai compagni rimasti liberi a non interrompere l'attività, anche in questa «fase» che sembra segnare un vantaggio da parte dello Stato. Come tutti i brigatisti, Nadia Lioce afferma di voler rispondere delle proprie azioni solo al proletariato e alla sua organizzazione, e così il processo che si svolge sotto i suoi occhi per lei significa poco o nulla. Significa molto, invece, per lo Stato e per i due poliziotti rimasti in vita che l'arrestarono 14 mesi fa. Ieri i sovrintendenti Giovanni Di Fronzo e Bruno Fortunato (quest'ultimo in pensione a 46 anni per l'invalidità dovuta alle ferite subite) hanno ricostruito ciò che accadde sul treno Roma-Firenze il 2 marzo 2003, tra Terontola e Arezzo, quando Galesi uccise il sovrintendente Petri, e Fortunato, a sua volta colpito, sparò al brigatista ferendolo a morte. Tra le due testimonianze c'è qualche discordanza, soprattutto sui concitati momenti in cui la Lioce s'impossessò della pistola che l'altro poliziotto, Di Fronzo, aveva gettato a terra. Fortunato ha detto che la donna tentò di sparare pure a lui, senza riuscirci, e solo dopo fu ammanettata, «ma da queste deposizioni non si capisce nulla di quel che è successo», protesta l'avvocato Baccioli. Per il legale della vedova Petri, avvocato Biscotti, è invece tutto chiaro, così come per l'accusa rappresentata dal pm Nicolosi e Bocciolini. Chi sembra disinteressato alla diatriba è proprio Nadia Lioce. «Ha diritto di sedere accanto al suo difensore, vuole usufruirne?», domanda la presidente della Corte d'assise. Ma lei, la militante pronta a lanciare un nuovo proclama di guerra allo Stato, si avvicina al microfono e declina l'invito: «No, grazie». - Giovanni Bianconi freccia rossa che punta in alto

6 maggio 2004 - "CHE COSA SONO LE BR" DI FASANELLA E FRANCESCHINI - LE BRIGATE ROSSE DA MORETTI A LIOCE

Le 'nuove Br', quelle degli omicidi D'Antona, Biagi, del poliziotto Petri, quelle della Lioce, oggi alla sbarra. E le vecchie Br, quelle di Curcio, Moretti, Franceschini. Secondo uno dei padri fondatori, appunto Roberto Franceschini. Questo terzo libro dell'ex brigatista, un' intervista nella quale il giornalista Fasanella interroga Franceschini, parte dalle domande oggi piu' urgenti: come spiega la longevita' del terrorismo italiano? che idea si e' fatto sul conto dei brigastiti di oggi? "Le br non sono nate dal nulla...hanno radici nella storia di questo paese...L'errore piu' grande, le cui conseguenze paghiamo ancora oggi, e' stato quello di aver rimosso il problema, evitando di fare i conti ognuno con le proprie responsabilita"". Franceschini parla di "un mito, la rivoluzione comunista, che in Italia e' cosi' duro a morire" ma precisa subito: "non penso assolutamente che quest'area (i disobbedienti, i Cobas, Bertinotti, cui faceva riferimento la domanda, ndr) possa essere, come si diceva una volta, l'acqua in cui nuotano i nuovi brigatisti....Noi avevamo un involucro politico in cui vivere: il Pci, la sinistra. I nuovi brigatisti non hanno piu' una casa", "si tratta di un gruppo di individui senza legami con realta' sociali. Nemmeno li cercano. Si muovono con la logica di una setta che persegue un obiettivo indipendentemente dal contesto sociale: e' la logica militarista e organizzativista delle Br morettiane portata alle estreme conseguenze". Dal presente al passato. "Un passato che tuttora incide sull'oggi e lo inquina", come dice nella postfazione un magistrato che sul terrorismo ha lavorato a lungo, Rosario Priore. Il passato e' quello delle vecchie Br, le prime, quelle delle auto dei capireparto bruciate, dei sequestri dimostrativi (foto dell'ostaggio con cartello al collo e poi tutti a casa); poi, Curcio e Franceschini ormai in galera, Mara Cagol morta, le Br guidate da Moretti, quelle delle gambizzazioni, degli omicidi di poliziotti, magistrati, giornalisti, fino alla strage di via Fani e all'uccisione di Moro. Un capitolo, nel libro di Franceschini-Fasanella, si intitola 'Le stranezze di Moretti' e sviluppa una vecchia tenace idea di Franceschini (ma per la verita' era il dubbio di molti giornalisti e magistrati che lavoravano sulle Br): Moretti infiltrato, spia, uomo dei servizi, forse quelli deviati (erano gli anni in cui il Sismi del gen Santovito assumeva l'agente molto speciale [32703mFrancesco Pazienza, ndr). L'ex brigatista rilegge la storia a partire dall'aprile '72, la vigilia delle elezioni politiche, quando lui stesso pedinava De Carolis (allora leader della maggioranza silenziosa) pensando, dice, ad un sequestro "come una sorta di contro campagna elettorale". Il giorno scelto per il rapimento la polizia interviene e arresta "una ventina di compagni", scopre i covi predisposti per l'operazione. La polizia fa il suo mestiere, obietta Fasanella. "Certo- risponde Franceschini-. Il problema e' che lo fecero solo in quell'occasione...sara' un caso ma qualche tempo dopo il nome di De Carolis lo avremmo letto nella lista degli adepti della P2". Ma, soprattutto, Moretti, quel giorno arriva con la macchina della moglie davanti al covo, vede la polizia, i giornalisti, e se ne va lasciando li' la vettura, racconta Franceschini. Ma -aggiunge l'ex br-leggendo i giornali scopriamo che la prorietaria di quell'auto, cioe' la moglie di Moretti, abita in una stradina privata dove ci sono due portoni, il suo e quello del capo dell'ufficio politico Antonino Allegra. "Possibile che non si siano mai visti?" si chiede Franceschini, possibile che Pisetta, confidente della polizia da anni che era stato accettato nelle Br proprio grazie a Moretti, non avesse fatto il suo nome? Avanti con colpi di fortuna e sbadataggini di Moretti, con i dubbi e i sospetti dei suoi compagni. Fino a quella frase che Curcio dice a Franceschini nel cortile del carcere nel 1976: "sono certo che Moretti e' una spia". E oggi, rispondendo a Fasanella, Franceschini dice: "guardi, se dovessi datare l'inizio dell'escalation della violenza brigatista, direi che coincide proprio con l'arrivo di Moretti". freccia rossa che punta in alto

7 maggio 2004 - Ansa: NEBULOSA DEL CASO MORO, LE DOMANDE DI MARIA FIDA MORO

"Fino a quando seguiterai a lasciarci senza risposta? Fino a quando prescinderai da noi?" chiede allo Stato Maria Fida Moro, figlia dello statista assassinato dalle Br nel 1978, che ha raccolto in questo libro i contributi di 33 amici di famiglia e giornalisti che da anni si interessano del caso Moro, ognuno dei quali racconta un piccolo pezzo di un dramma che ha cambiato la storia d' Italia e per la quale Maria Fida Moro, attraverso l' avvocato Nino Marazzita, ha recentemente presentato un'istanza di riapertura delle indagini. Il libro non ha un suo teorema ma pone tante domande, nuove e vecchie, alle quali nessuno ha ancora dato una risposta e che lasciano ancora aperta una vicenda che non si puo' in nessun modo considerare risolta, anche se qualcuno cosi' vorrebbe. La stessa Maria Fida Moro scrive, come ha recentemente anticipato ad una tv privata, che suo padre era salito sull'Italicus, il 4 agosto 1974, per raggiungere la famiglia in vacanza in Trentino, ma prima che il treno della strage partisse fu fatto scendere per firmare carte importanti. Eccole allora, alcune delle domande contenute nel libro:

("La Nebulosa del caso Moro" a cura di Maria Fida Moro - SELENE EDIZIONI, pp.210, 13,50 euro)freccia rossa che punta in alto

8 maggio 2004 - SOSSI: COSI' SPINSI LE BR A TRATTARE
Corriere della Sera - Il magistrato rapito nel 1974: ha ragione Franceschini, tra loro qualcuno voleva uccidermi
Sossi: così 30 anni fa spinsi le Br a trattare - DAL NOSTRO INVIATO GENOVA

"Hanno voluto festeggiare il trentennale...". La lettera è arrivata il 22 aprile dall'ufficio pensioni del ministero di Grazie e Giustizia. "Oggetto: richiesta dei benefici quale vittima del terrorismo". Le altre istanze erano state respinte, questa è stata accolta. Quindi, trent'anni dopo il suo sequestro, lo Stato italiano ha stabilito che sì, in effetti, il giudice Mario Sossi è da considerarsi una vittima del terrorismo e come tale ha diritto "alla liquidazione dell'importo della Speciale Elargizione ai sensi della legge...". Non che avesse particolare bisogno di quella "Speciale Elargizione", il giudice Sossi. Soltanto, "è questione di principio". Il suo intercalare preferito. Persona spigolosa. Per rendere l'idea: tramite il suo avvocato Maurizio Mascia ha presentato denuncia penale contro l'intero Consiglio Superiore della Magistratura, reo, secondo lui, di avere violato la legge per insediare un altro candidato sulla poltrona di Procuratore generale di Genova. Da magistrato, lo chiamavano "il dottor manette". Anni Settanta, quando essere giustizialista significava essere di destra. Il suo sequestro segnò il salto di qualità delle prime Brigate rosse. Lo presero sotto casa alle otto di sera del 18 aprile 1974. "Cercavi le Br? Le hai trovate...". Lo rilasciarono il 23 maggio. Oggi Sossi ha 72 anni. E' presidente della prima sezione penale della Cassazione. Sempre magro, un borsello che arriva dritto da quegli anni. Parole come ostaggi e trattativa oggi sono di attualità. Anche la sua vicenda personale. In un nuovo libro, il fondatore delle Br Alberto Franceschini sostiene che i sequestratori si divisero sulla sua sorte. Lui voleva salvare la vita dell'ostaggio e per questo trattò con alcuni politici, Curcio e Moretti volevano ucciderlo. Presidente Sossi, è fondata questa tesi? "Durante la prigionia, ebbi modo di percepire una spaccatura tra i miei carcerieri. Liti, tensioni tra loro. Credo che la situazione fosse quella descritta da Franceschini". Trent'anni dopo, ci ripensa mai? "La condizione di ostaggio uno non se la dimentica. E' strano, ma ricordo soprattutto i sogni che facevo. L'adunata dei miei Alpini a Udine. Io che cammino su un poggiolo e mi accorgo che non ho vie di uscita. Io che corro in salita per poi accorgermi che sono sempre fermo". Per lei lo Stato accettò di trattare. "Si giocò sulla loro totale assenza di nozioni giuridiche. Scambio di ostaggi, a patto che io fossi "incolume"". Ma lei aveva due costole rotte, e i detenuti dei quali le Br chiedevano la liberazione rimasero in carcere. "E' come se a distanza io e il Procuratore capo di Genova Francesco Coco avessimo svolto una azione coordinata". Coco pagò con la vita lo scambio mancato. "E' un peso che mi porterò sempre dentro. Eravamo amici, io sapevo come si sarebbe comportato lui, e viceversa. Provo ancora una rabbia enorme". Lei sostiene che è necessario trattare, sempre. "Io penso da uomo di legge. Prima bisogna riconoscere che c'è in atto uno stato di guerra, poi bisogna trattare attraverso lo scambio di ostaggi, che è l'unica soluzione consentita dallo stato di guerra". Solo con lo scambio di ostaggi? "Sulla singola persona. Ripeto: è l'unica soluzione consentita dallo stato di guerra". Se trent'anni fa avessero proposto la sua liberazione in cambio di denaro? "Durante il mio sequestro, questa soluzione venne scartata. I miei carcerieri ne parlarono con me. E io dissi loro di rifiutare. Questione di principio. E poi sapevo bene che questa via non avrebbe portato alla mia liberazione". "Trattare sempre". Non è segno di debolezza? "All'epoca del sequestro Moro trattare avrebbe significato riconoscere che era in atto un tentativo di insurrezione contro lo Stato, che avrebbe così legittimato, almeno giuridicamente, lo stato di guerra; anche oggi in Iraq bisogna riconoscere che siamo in guerra, anche se i nostri soldati non compiono atti di guerra. Non è debolezza, è realismo". Cosa disse ai suoi carcerieri prima di essere liberato? "Una battuta: "Quando vi prenderanno e saremo davanti per il confronto dirò che i miei rapitori erano sardi...". Invece li riconobbi tutti, dalle voci e dagli occhi". Che valutazione dà di quegli anni? "Il mondo rovesciato. Una volta tornato in ufficio, mi trovai davanti un terrorista in manette. Mi disse: "Ricordati sempre che sei in libertà provvisoria". Saltarono le regole. Secondo me in quegli anni, la Stato democratico ha lasciato troppe libertà, che si sono tradotte in minacce per la libertà degli altri". Lei rifiuta di incontrare Franceschini. Un meccanismo di rimozione? "Franceschini lo incontrerei solo se la sua posizione fosse più netta, di pentimento sincero. Invece, è persona ambigua, che specula sul suo passato, ci gioca. E nel farlo, mostra scarsissima considerazione per le sue vittime, vizio nazionale. Non è rimozione, è una questione di principio". - Marco Imarisio freccia rossa che punta in alto

9 maggio 2004 - PRESENTAZIONE "NEBULOSA DEL CASO MORO"

ANSA: MORO: ANDREOTTI, CONTATTO CON VATICANO CI ANTICIPO' DUCHESSA

L'uomo, qualificatosi delle brigate rosse che teneva i contatti tra l'organizzazione terroristica e il Vaticano anticipo' il falso comunicato della Duchessa come elemento di prova della sua autorevolezza,. Lo ha rivelato, 26 anni dal rapimento Moro, Giulio Andreotti, intervenuto stamani presso la sede degli Archivio di Stato a Roma, in occasione della presentazione del volume "La nebulosa del caso Moro", Selene Edizione, curato da Maria Fida Moro.
Andreotti ha ricordato la trattativa del Vaticano, che doveva concludersi con il pagamento di un forte riscatto, proprio la mattina del 9 di maggio. Andreotti ha confermato che il Vaticano era pronto a pagare una cifra molto considerevole. C'erano contatti gia' prima della Duchessa, il 18 aprile del '78. "Una persona ci informo', 'domani uscira' un comunicato, ma non spaventatevi', questa persona ci avverti."
Andreotti ha ricordato che le indagini indicarono in Toni Chichiarelli l'autore del falso comunicato oltre che degli altri messaggi connessi con la vicenda. Chichiarelli fu l'autore di una rapina miliardaria presso la Brink's. "Se sia lui l'autore lo si dice come si dice - ha aggiunto Andreotti - anche che sia stato un collaboratore dei Servizi segreti. Ma non lo so proprio. Questo contatto diede come prova che ci sarebbe stato il falso comunicato delle Brigate Rosse ma al contempo di rassicuro'. E' vero che l'autore del comunicato e' Chichiarelli ma non e' verosimile che sia stato effettivamente lui".
Il falso comunicato del Lago della Duchessa affermava che Moro "era stato suicidato" e sepolto nel lago, all'epoca gelato, in provincia di Rieti, sulle montagne della Duchessa. Due giorni dopo le Brigate Rosse smentirono l'autenticita' di quel comunicato con il settimo comunicato autentico. freccia rossa che punta in alto

ANSA: COSSIGA, NON SAPEVO DI BR-VATICANO PRIMA DI 'DUCHESSA'. FORSE SE LO AVESSI SAPUTO POSSIBILE BLITZ PER LIBERARE MORO

Francesco Cossiga ignorava del tutto che vi fosse un contatto tra Vaticano e Br prima del "falso" comunicato del lago della Duchessa, del 18 aprile 1978, come rivelato oggi dal sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, e sostiene che se fosse stato informato avrebbe potuto tentare un blitz della polizia per liberare il presidente della Democrazia Cristiana.
In un breve colloquio con l'agenzia Ansa, Francesco Cossiga ricorda: "Io non ho saputo niente di questi contatti, ne' prima, ne' durante, ne' dopo il rapimento Moro. Ma di questo non mi meraviglio perche' era ben nota la mia posizione a sostengo leale della linea della fermezza e per non cedere al ricatto. Potevo accettare solo eventualmente una trattativa tattica per cercare di catturare i sequestratori. D'altra parte Aldo Moro scrisse dal 'carcere' che io ero troppo succube di Berlinguer e schierato sulla linea del compromesso storico. Inoltre, gia' da allora, come anche oggi, il ministro dell'Interno e' un ministro dimezzato, che non ha poteri pieni di controllo sui servizi segreti".
"Io ho sempre ritenuto - prosegue Cossiga - sulla base delle perizie degli esperti della Procura di Roma, della Polizia e dell'Arma dei Carabinieri, che il comunicato del lago della Duchessa potesse provenire almeno da una parte delle Br, una fazione favorevole alla trattativa, e che il loro scopo fosse quello di creare una situazione di terrore, specie nella Dc, prefigurando la situazione politica e morale successiva all'uccisione di Aldo Moro. Credo anche che quel falso comunicato del lago della Duchessa fosse, anche se in forma indiretta, una qual sorta di disponibilita' alla trattativa. Se i servizi di informazione e i reparti anti-terrorismo dei Carabinieri e della Polizia avessero saputo di questi contatti tra il Vaticano e le Br, fino ad oggi da me del tutto ignorati, perche' all'epoca ero ritenuto troppo intransigente e troppo filo compromesso storico, ma che erano conosciuti dal piu' avveduto Giulio Andreotti, un'azione di forza, che noi eravamo in grado di compiere in condizioni di alta sicurezza per l'ostaggio, sarebbe forse riuscita a salvare la vita del presidente della Dc".
"Oggi pero' - osserva Cossiga - tutto questo diventa soltanto una ricostruzione fin troppo ricca di 'se' e di 'ma', forse troppo per poter costituire storia, anche se solo storia del possibile. Certo - dice ancora Cossiga - piu' gli anni passano e piu' mi accorgo di essere stato un bell'ingenuo a credere di essere un vero ministro dell'Interno, di uno Stato sovrano! E ancor oggi se ipotizzassi o pensassi a una qualche forma di impegno politico tutto questo rappresenterebbe per me una bella lezione di umilta'". freccia rossa che punta in alto

MORO: COSSIGA, NON POSSO FARE NOMI DI CHI TRATTO' CON PSI I SOCIALISTI NON COLLABORARONO CON ME COME FECE IL PCI

"Io non rimprovero i socialisti. Non rimprovero Craxi, non rimprovero Signorile, ne' Pace, ne' Piperno. Io pero' non posso fare i nomi dei Br che erano in contatto con i socialisti. Io non li so". Francesco Cossiga affronta cosi' uno degli snodi della vicenda Moro, come se non fosse ormai acclarato che i contatti che i socialisti ebbero, tramite Lanfranco Pace, fossero Valerio Morucci e Adriana Faranda. L'ex presidente della Repubblica, dicendo di ignorare i nomi dei due brigatisti, che risultano negli atti di diversi processi, sembra cosi' suggerire che i fatti furono molto piu' complessi.
"Se i socialisti fossero stati un po' inglesi - commenta subito dopo Cossiga - cioe' cittadini al servizio della Corona, per cui e' dovere del cittadino collaborare con la stessa, chissa'... Se ci avessero detto: 'Noi abbiamo trovato il canale'... Non ne sono certo, ma se avessero scelto una linea legittima, come quella del Pci che ha collaborato con noi in forme molto piu' forti di quello che comunemente la gente crede (e che non rivelo perche' non voglio che parte dell'ex Pci getti fango su Ugo Pecchioli), chissa'... Se i socialisti, invece di comportarsi come 'italiani brava gente', fossero stati sudditi di Sua Maesta' britannica, chissa' se non si sarebbe riusciti a salvare Aldo Moro?".
"Non voglio rimproverare i socialisti - precisa - per i contatti che avevano. Uomo di contatto era Lanfranco Pace. Non faccio i nomi di quelli delle Br. Quelli delle Br che avevano contatti con Pace mi hanno detto che ogni volta che lo dovevano incontrare tremavano perche' temevano che Pace fosse pedinato, seguito. Ma avevano comunque accettato questo rischio".
Con Cossiga si parla anche di altri personaggi di quella stagione.
Di Patrizio Peci, il primo "pentito" delle Br, dice: "Non era certamente l'infiltrato di Dalla Chiesa, anche se la sfuriata che il generale mi fece quando venne a perorare la sua causa, temendo che fosse 'gestito dal Sisde', me lo potrebbe anche far pensare, ipotizzare. Ma e' solo una mia ipotesi". Cossiga afferma poi di non sapere se don Antonello Mennini sia stato o no nel "carcere" delle Br, magari per portare dei documenti riservati cosi' come si sostiene nel film "Il caso Moro" di Giuseppe Ferrara, la cui "sceneggiatura" venne rivista dalla signora Moro. "Io non so se Mennini porto' o no delle carte. Se domani pero' si sapesse, la cosa non mi meraviglierebbe. Il dubbio che ci sia stato un 'canale di ritorno' con la famiglia ce l'ho, forte. Io mi sono sempre chiesto se le lettere che mi sono state recapitate, che sono recapitate in genere, siano state trovate effettivamente, come si disse, nei cestini della carta straccia...".
L'ex Capo dello Stato insiste infine sui tentativi che si fecero per salvare lo statista Dc. "Noi - ricorda - abbiamo fatto tutto per salvare Moro. Lo ha fatto la Dc. Abbiamo coinvolto Amnesty International, l'arcivescovo di Canterbury, la Croce Rossa, ma ci siamo sempre trovati di fronte all'ostacolo del riconoscimento politico che le Br chiedevano. Quando c'e' in ballo una vita ognuno si assume le sue responsabilita'. Io l'ho fatto. Ci sono alcune anime tremule, ex Dc, che si arrabbiano molto quando dico che per giorni mi sono svegliato nel cuore della notte dicendomi: 'Io ho ucciso Moro'. E ribadisco oggi che e' vero. Noi abbiamo ucciso Moro. Alcuni che si arrabbiano e' perche' facevano uno, due, tre... anche quattro giochi diversi, e per molti di loro bisognava far uccidere Moro per non rompere con i comunisti. Io non ho scelto la linea della fermezza per far uccidere Moro, come ha creduto una parte della famiglia, ma come conseguenza di un atto".
Cossiga ricorda anche le diverse ipotesi che si fecero in quei 55 giorni: "Abbiamo disegnato i diversi scenari. Abbiamo anche chiesto in giro se vi fossero dei paesi disponibili ad ospitare dei terroristi, per una sorta di 'esilio'. Chiedemmo all'Algeria, ma solo come mera ipotesi, perche' sin dal primo momento io ero contrario a qualsiasi ipotesi di trattativa. Moro dal 'carcere' delle Br disse che io ero condizionato da Berlinquer, mio cugino, sardo come me. E poi lui scrisse, riferendosi a me, che io al compromesso storico ci credevo veramente, ed era vero. Quello che i comunisti non hanno mai capito e' che io ci credevo veramente, molto piu' di Moro".
Cossiga torna infine sulle difficolta' di quei giorni, e sottolinea: "Io non ricevevo informazioni dal Sismi, che credeva suo dovere occultare le cose al ministro dell'Interno, perche' il solco, l'odio tra il ministero della Difesa e il ministero degli Interni e' storico. Le cose che mi diceva il Sismi erano pochissime, quasi nulla. Sicuramente - aggiunge Cossiga rispondendo ad alcune domande - non mi potei servire dell'unico personaggio capace in Italia, che era Umberto Federico D'Amato (ex responsabile dell'Ufficio affari riservati del Viminale) e del suo piccolo ed efficientissimo servizio che aveva fatto fuori l'Oas in Italia". freccia rossa che punta in alto

MORO: ANDREOTTI, SCONFITTA CHE NON SI POTRA' MAI COMPENSARE

Quella di oggi, a 26 anni dalla morte di Aldo Moro, e' la ricorrenza di una "sconfitta che non potra' mai essere compensata". Giulio Andreotti ricorda Aldo Moro presentando, all' Archivio di Stato, il libro 'La nebulosa e il caso Moro' (ed.Selene), curato da Maria Fida Moro.
Andreotti ha ricostruito i rapporti che a cavallo degli anni '70 videro lo sviluppo della politica di Moro, parlando tra l'altro di due aspetti ancora da chiarire: quello del presunto studente sovietico Sokolov, che seguiva da vicino Moro alla vigilia del rapimento e che potrebbe essere un agente del Kgb, e del direttore d'orchestra Igor Markevitch ("Un punto che potrebbe essere approfondito"). Ma Andreotti parla anche di Mario Moretti, che potrebbe dare un contributo "forse determinante". "Avevo chiesto una sua testimonianza per un punto che mi stava a cuore, durante i processi che ho subito, ma mi ha risposto che lui non viene a testimoniare davanti ai tribunali borghesi". Altri temi toccati dalla ricostruzione di Andreotti hanno riguardato l'ultima riunione della direzione Dc, proprio il 9 maggio 1978, "quella che avrebbe dovuto, secondo alcuni, aprire la strada, grazie a un intervento di Amintore Fanfani, ad un cambiamento della linea Dc".

"A me non risulta che Fanfani volesse fare un intervento di questo tipo. Non so quel che e' stato detto in un circuito circoscritto e che ha riguardato anche la famiglia. Io non credo che si sarebbe mutata la linea della trattativa. Chi dice il contrario sbaglia. Ne' sarebbe stata utile la liberazione di Paola Besuschio, come ipotizzato nelle ultime ore prima della morte di Moro, perche' aveva due incriminazioni e se anche si fosse concessa la grazia per la prima, cosa possibile, non lo si sarebbe potuto fare per la seconda".

Ma Andreotti ha anche criticato il libro, in particolare per una ricostruzione riguardante la "Gladio militare" e un suo presunto componente, Antonino Arconte. Nel libro si da' conto di una missione che sarebbe stata affidata ad Arconte il 2 marzo 1978, ben prima del rapimento. Andreotti ha presentato un'interrogazione per chiedere se sia vero che l'ordine impartito ad Arconte da questa presunta struttura fosse stato quello di interessarsi presso l'Olp per prendere contatti per liberare Moro, gia' prima che il rapimento fosse avvenuto.
"La risposta alla mia interrogazione chiarisce che quei documenti mostrati da Arconte sono falsi, come falsi sono i suoi presunti contatti con i servizi americani, che non lo conoscono. Queste cose si debbono raccontare, perche' senno' potrebbe sembrare che questa e' una societa' di delinquenti. Ma cosi' non e". freccia rossa che punta in alto

10 maggio 2004. LA VITA IN CAMBIO DEL SILENZIO SUI SEGRETI DI MORO. ALBERTO FRANCESCHINI, FONDATORE DELLE BR, VUOTA IL SACCO. LO STRANO LIBRO-INTERVISTA DI MORETTI CON ROSSANA ROSSANDA.

(Dagospia.com)La Bur Rizzoli ha mandato in libreria un interessantissimo libro-intervista, "Che cosa sono le Br" (8 euro e 50). A porre le domande ad Alberto Franceschini, fondatore delle Br, arrestato nel 1974, dissociatosi nel 1982, dopo 18 anni di carcere ora fa l'imprenditore, è Giovanni Fasanella, giornalista di Panorama, gran esperto del caso Moro per aver pubblicato presso Einaudi "Segreto di Stato" e "Il misterioso Intermediario". Dal libro, abbiamo tratto gran parte dell'ultimo capitolo, "La pietra tombale", che fa luce sul perché le Br non resero mai pubblici gli interrogatori di Aldo Moro (in cambio ottennero la salvezza delle loro vite); e perché Rossana Rossanda ci teneva tanto a pubblicare un libro-intervista con Mario Moretti per sottolineare che le Br erano "una storia italiana". "LA PIETRA TOMBALE" - da "Che cosa sono le Br", BUR. In carcere, sapevate che le Br stavano progettando il sequestro Moro? Assolutamente no, per noi fu una sorpresa. Nessuno di noi pensava che l'organizzazione fosse in grado di compiere un'azione di quel tipo. Perché sorpresa? Quando l'arrestarono a Pinerolo, lei aveva in tasca il piano per il sequestro di un politico potente, Giulio Andreotti. Sequestrare Andreotti allora era facilissimo, non aveva la scorta. Io lo avevo pedinato e addirittura, nella chiesa sul Lungotevere, dove andava tutte le mattine alle 7, gli avevo toccato una spalla. Moro, invece, era scortato. Conoscendo tutti i brigatisti che parteciparono al sequestro, e il loro livello militare, ancora oggi non riesco a capire come abbiano fatto. O devo pensare che la scorta di Moro fosse composta da incompetenti. Ed è improbabile. Oppure che, nel commando, c'erano personaggi tipo Francesco Marra (l'ex paracadutista del sequestro Sossi), mai identificati. Ed è possibile. Nessuno di noi, poi, aveva mai pensato a Moro come a un possibile obiettivo. Il nemico, per noi del nucleo storico, era il progetto "neogollista" incarnato dalla destra democristiana. Per cui, semmai, era quello il filone: Andreotti, Taviani, loro sì, erano obiettivi da colpire. Ma soprattutto fu sconcertante, poi, la gestione politica del sequestro: errata e assolutamente incomprensibile. Sconcertante, incomprensibile, lei dice. Perché? Le notizie che noi avevamo dall'esterno, allora, passavano soprattutto attraverso il canale degli avvocati Edoardo Arnaldi e Sergio Spazzali, due compagni dell'organizzazione assolutamente degni di fede. All'inizio ci dissero che le cose andavano benissimo, che Moro stava parlando, che aveva già rivelato retroscena importantissimi sulla strage di piazza Fontana e sulle responsabilità di Andreotti. Poi, di colpo, la situazione si rovesciò: dall'esterno si preoccuparono di farci sapere che Moro non aveva detto niente di interessante e che i compagni temevano di essere scoperti, perciò erano costretti a chiudere la vicenda al più presto. Ricorda se quel brusco cambiamento coincise con un qualche evento particolare? Le cose cambiarono dopo la scoperta del covo in via Gradoli: si passò improvvisamente e incomprensibilmente dall'euforia alla depressione più nera. Secondo una delle ricostruzioni più recenti, quella dell'ex presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino, via Gradoli costituì un punto di svolta. Moro stava rivelando segreti militari sensibili ai suoi carcerieri perché voleva costringere lo Stato a trattare per la sua liberazione. Proprio come aveva fatto Sossi con noi. Anche Moro aveva capito che era ormai spacciato e che poteva tentare di salvarsi giocando l'unica carta che aveva: i segreti. E da quel momento, infatti, una vicenda "italiana" si trasformò in un caso internazionale, entrarono in gioco poteri assai più forti della politica e dei governi e iniziò una complessa trattativa per salvare Moro, ma soprattutto per proteggere i segreti che stava rivelando. La scoperta del covo di via Gradoli fu in qualche modo pilotata da Moretti per indurre uno stato d'animo nell'organizzazione: quello che lei ha appena descritto. E cioè, Moro non ha detto niente di interessante, siamo in pericolo, dobbiamo chiudere la vicenda al più presto... Sì, è credibile questa ricostruzione. Ma noi, allora, non potevamo sapere e rimanemmo sconcertati. Tant'è che, a quelli fuori, mandammo a dire: guardate, se la situazione è questa, non chiedete la nostra liberazione in cambio della vita di Moro. Facemmo arrivare questo messaggio anche perché non credevamo alla possibilità di uscire dalla galera con uno scambio. Attraverso l'avvocato Giannino Guiso eravamo in contatto direttamente con Craxi. E Craxi ci aveva fatto avere questo messaggio: "Non crediate di uscire salvi da questa situazione. Anche se riuscite a farvi mettere su un aereo per andare all'estero, hanno organizzato un gruppo speciale con il mandato di uccidervi tutti appena l'aereo tocca terra. L'unica possibilità che avete è di mettere in piedi una qualche trattativa". Torniamo alle carte di Moro. Dunque, a Firenze qualcuno le aveva suddivise e poi le aveva consegnate ad Azzolini, dicendogli quale parte nascondere e quale, invece, dare da leggere alla Mantovani. Questo è il punto. Mentre i brigatisti fuori dicevano a noi che Moro non aveva detto niente di interessante, a Firenze invece qualcuno era perfettamente in grado di capire l'importanza delle dichiarazioni di Moro, tanto da decidere quali erano le carte da far ritrovare a Dalla Chiesa e quali no. E se qualcuno era in grado di comprendere l'importanza delle dichiarazioni di Moro, era anche in grado di utilizzarle in una trattativa occulta. È per questo, dunque, che a voi dicevano che Moro non aveva parlato: perché non potevano o non volevano utilizzare pubblicamente le sue carte? Evidentemente sì. Eravamo sconcertati di fronte all'inerzia politica dell'organizzazione. Noi insistevamo perché facessero un bilancio politico dell'operazione Moro, ma da fuori non avevamo risposte e l'organizzazione sembrava allo sbando. A un certo punto arrivarono a chiedere a noi in carcere di assumerci il compito di trarre un bilancio complessivo dell'operazione Moro. E, infatti, il documento della direzione strategica che fa un bilancio politico del sequestro Moro fu scritto da Curcio nel carcere di Termini Imerese nel gennaio 1979 e poi discusso con noi prigionieri all'Asinara. Certo, oggi la dinamica della vicenda Moro è più facile da decifrare. Ma allora, in carcere, avevate comunque percepito che le carte del "processo" avevano una certa importanza? O no? Si percepiva chiaramente un'inquietudine legata alle carte di Moro. E non solo dal versante brigatista. Le racconto un episodio su Francis Turatello, il gangster milanese. Nel 1980, poco prima che lo uccidessero, eravamo nello stesso carcere, a Nuoro. Non avevo mai avuto con lui rapporti particolarmente affettuosi, ma non ci eravamo nemmeno mai fatti la guerra: ci limitavamo a osservarci e controllarci reciprocamente, a distanza. Anche perché lui era un nazista, portava sempre appesa al collo una svastica d'oro tempestata di diamanti. Turatello era inquieto, turbato, mi girava intorno con l'aria di chi voleva fare amicizia. E un giorno mi disse che voleva parlarmi e mi raccontò un paio di episodi che io allora non capii subito. Episodi legati alle carte di Moro? Sì, avevano a che fare con Moro. Mi disse: io vi ho salvato la vita. E mi raccontò che il suo avvocato, tale Formisano, un esponente del Msi a suo dire legato ai Servizi segreti, era andato da lui e gli aveva proposto di organizzare in carcere dei nuclei di picciotti per assassinare quei brigatisti rossi che erano nella lista dei detenuti da liberare in cambio di Moro. I killer, per il loro lavoro, avrebbero percepito anche uno stipendio mensile di 2-300 mila lire. Turatello mi disse: io mi sono rifiutato, perché, anche se sono di destra, voi siete dei bravi ragazzi e non farò mai una cosa del genere. All'inizio pensai che la sua fosse una smargiassata, che volesse farmi sentire in debito per creare un rapporto di dipendenza nei suoi confronti. Ma alcuni anni dopo, la storia è venuta fuori attraverso i racconti dai pentiti di mafia: Tanino Costa, uno dei boss di Messina, disse ai giudici le stesse cose che Turatello aveva confidato a me. Qual è il secondo episodio che le raccontò Turatello? Era legato proprio alle carte di Moro. Continuava a ripetermi, con il tono allusivo tipico dei mafiosi: e poi tu lo sai benissimo perché sono finito in punizione a Nuoro, sai quella storia delle carte di Moro... Io non ne sapevo nulla, non capivo e non potevo fargli nemmeno troppe domande, perché avevo imparato che con certi personaggi non si può essere troppo curiosi. Venti giorni dopo, Turatello venne massacrato in modo orrendo dai suoi stessi scagnozzi. E lei non ha mai saputo che cosa voleva comunicarle? L'ho scoperto molto tempo dopo, leggendo il libro di memorie di un maresciallo del carcere di Cuneo, Angelo Incandela. Il quale racconta che una sera Dalla Chiesa andò da lui con Mino Pecorelli. Il giornalista di "Osservatorio politico" disse al maresciallo che stavano per arrivare in carcere carte destinate a Turatello, che allora era detenuto a Cuneo. E spiegò anche che si trattava degli originali del memoriale Moro, che Turatello intendeva utilizzare per ricattare qualcuno. Incandela avrebbe dovuto intercettarle e consegnarle a Dalla Chiesa. Le carte arrivarono e Incandela fece esattamente come gli aveva chiesto Pecorelli. Quanto a Turatello, per punizione fu trasferito prima a Pianosa e poi a Nuoro. L'episodio di Turatello è un'altra conferma dell'importanza di quelle carte. Se i brigatisti trattarono, che cosa ebbero in cambio del silenzio sui segreti di Moro? Immediatamente la salvezza della vita. Perché, di fatto, i brigatisti poterono tenere Moro per 55 giorni, ucciderlo, lasciarlo in pieno centro e andarsene indisturbati. Successivamente, l'impunità. La trattativa io l'ho vista proseguire in carcere. Ho visto molti brigatisti coinvolti nel sequestro Moro affermare alcune cose e rimangiarsele dopo aver avuto colloqui con Remigio Cavedon, allora direttore del quotidiano Dc "Il Popolo" e uomo di fiducia di Flaminio Piccoli. Cavedon ci provò anche con me, dicendomi chiaramente: "Non dire nulla pubblicamente di quello che sai, dei tuoi dubbi. Scrivilo e fammelo avere. In cambio vi daremo l'amnistia ". Io rifiutai, ma molti altri, primo fra tutti Morucci, accettarono di buon grado. Tant'è che poi, in una lettera riservata all'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, fece il nome di Alessio Casimirri, indicandolo come uno dei brigatisti che agirono in via Fani. Prima, quel nome, Morucci non lo aveva mai rivelato ai magistrati inquirenti. E soltanto 20 giorni dopo aver ricevuto la sua lettera, Cossiga decise di inviarla al magistrato competente. Ma perché volevano che raccontaste tutto a loro e riservatamente? Evidentemente perché avevano la necessità di mantenere un controllo assoluto sulle informazioni relative al sequestro Moro. Come dice il senatore Pellegrino, ci sono aspetti di quella vicenda che sono ancora "indicibili". Qual è, secondo lei, l'area di "indicibilità"? Certamente l'Hyperion. Tant'è che ogni volta che le inchieste giudiziarie sono arrivate a Hyperion, o sono state bruciate da fughe di notizie pilotate in Italia, o si sono arenate per mancanza di collaborazione da parte dei Servizi segreti francesi. Lei sostiene che i francesi sabotarono le inchieste italiane su Hyperion: che elementi ha per affermare una cosa del genere? Non lo dico io, ma il generale Dalla Chiesa alla Commissione parlamentare d'inchiesta sull'assassinio di Aldo Moro, nel febbraio 1982, pochi mesi prima che lo ammazzassero: "Il fatto è che non abbiamo molta collaborazione da parte francese e lo ha potuto sperimentare anche il dottor Calogero [...]. Il Mulinaris era uno al quale Moretti faceva capo spesso e non solo a Udine ma anche a Parigi [...] per l'Hyperion avremmo bisogno di una collaborazione attiva da parte della gendarmeria francese, degli organi di sicurezza francesi, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare". Parigi, come ho cercato di spiegare finora, è fondamentale per la sopravvivenza delle Br. Tant'è che, quando nel 1981 arrestano Moretti, i vari tronconi in cui si erano spaccate le Brigate rosse dopo l'assassinio di Moro, la prima cosa di cui si preoccupano è ristabilire i contatti con Parigi. I rapporti con la Francia, infatti, li aveva mantenuti sempre e solo Moretti, l'unico che aveva anche il numero di telefono giusto, quello di un certo "Louis", che parlava italiano. Chi era? Vanni Mulinaris, come ha dichiarato Savasta. Il suo numero di telefono, Moretti non l'aveva scritto, l'aveva imparato a memoria. Per cui, quando lo arrestano, quelli fuori non sanno più come collegarsi con Parigi. Ma, alla fine, quel numero di telefono parigino, qualcuno lo ritrova o no? Sì, il criminologo fiorentino Giovanni Senzani, tramite lo stesso Moretti e Fulvia Miglietta, militante della colonna genovese che intanto era latitante a Parigi. Lo rivela il pentito Roberto Buzzati al giudice istruttore romano Rosario Priore. Ecco il suo racconto: "I contatti internazionali delle Brigate rosse si erano interrotti con l'arresto di Moretti, che era quello che se ne occupava. Senzani, sia attraverso di lui, che attraverso la Miglietta, li aveva ristabiliti tutti [...]. Questa cosa era un altro punto a nostro favore, in quanto il "centro" era riuscito a mantenere solo un contatto con alcuni superstiti con la Raf tedesca". Senzani ritrova il numero parigino e prende il posto di Moretti nei rapporti con Hyperion. Ma Hyperion, che cos'era: soltanto un'istanza superiore delle Br, o qualcosa di più complesso? Si può ricavare una risposta a questa domanda leggendo gli appunti trovati in tasca a Senzani al momento dell'arresto, avvenuto a Roma il 9 gennaio 1982, proprio mentre stava per sequestrare Cesare Romiti, allora amministratore delegato della Fiat. È uno scritto di suo pugno, il verbale di una riunione a Parigi che svela l'orizzonte dentro cui si muoveva Hyperion. A Parigi si discuteva di geopolitica, dei grandi giochi dell'Est e dell'Ovest, innanzitutto sulla scacchiera europea e mediterranea. E dei grandi giocatori. Non solo Urss e Usa, ma anche, per fare un esempio, un asse socialista franco-austriaco, un "terzo giocatore, l'asse Mitterrand-Kreisky per il controllo politico del Medio Oriente". Parlavano dei grandi giochi e degli strumenti utilizzati, in primo luogo i Servizi segreti: "È chiaro che R. ha interesse oggettivo all'O. e per come si muove potrebbe avere un uomo nell'O [...]. I Servizi segreti R. li ha in tutti i m. r. [movimenti rivoluzionari] europei - anche Raf, ultima operazione Nato è loro ma politicamente guidata da Servizi segreti di R. che ha fornito sicuramente (ma indirettamente) le notizie". Dal contesto mi sembra chiaro che con R. si intenda la Russia, e con O. l'Organizzazione, cioè le Brigate rosse. Anche da questi pochi appunti si capisce a che livello si muovevano gli uomini di Hyperion e perché dovevano essere assolutamente protetti. Solo attraverso il sabotaggio delle inchieste giudiziarie, come denunciava Dalla Chiesa? Oppure, secondo lei, sono state messe in campo altre forme di protezione? Le pongo questa domanda perché colpisce il fuoco di sbarramento che da più parti viene subito alzato ogni volta che la ricerca della verità prende certe direzioni, come quella parigina. Sono sempre più convinto che Hyperion sia stato protetto anche attraverso la costruzione di una verità ufficiale. L'esempio più clamoroso, da questo punto di vista, è il libro-intervista di Moretti con Rossana Rossanda e la giornalista Carla Mosca, Brigate rosse: una storia italiana. Attorno a quel libro hanno costruito una vera e propria operazione politica, il cui senso è chiaro sin dal titolo: le Br sono un fenomeno assolutamente autoctono, italiano, tutto interno alla tradizione culturale della sinistra. Ogni altra interpretazione è semplicemente "dietrologia". E non è vero che le Br sono il prodotto di quella cultura e di quella tradizione? L'ha detto lei stesso proprio all'inizio di questa intervista. Certo che è vero. Del resto, chi può saperlo meglio di me che provengo dal Pci e sono stato uno dei fondatori delle Br? Ma questa è solo una metà della mela. Dell'altra metà, finora si sono visti solo alcuni labili contorni. In quell'intervista, Moretti si preoccupa costantemente di tagliare ogni filo che possa condurre a Parigi. Lo fa andando spesso non solo contro la logica e il buon senso, ma persino contro le dichiarazioni estremamente chiare e precise di molti testimoni e pentiti. La Rossanda, sin dalla Prefazione, avalla apertamente la ricostruzione di Moretti, nobilitandola con il proprio prestigio. E questo francamente mi risulta difficile da comprendere. Perché si stupisce? Fu proprio la Rossanda a indicare le radici delle Br nell'"album di famiglia" della sinistra italiana. E la ricostruzione di Moretti le dà ragione. Anch'io le do ragione, questo è un merito che indubbiamente le va riconosciuto. Ma la Rossanda, sposando le tesi di Moretti, ha anche la responsabilità di aver avallato una verità monca. Qualsiasi persona dotata, non dico di coraggio civile, ma semplicemente di buon senso, si porrebbe mille domande sulla grande tragedia che abbiamo vissuto. Lei, invece, è partita bene con la storia dell'"album di famiglia", ma poi si è fermata di fronte alla verità di Moretti: lì ha smesso di esercitare la sua intelligenza critica. Se è così convinto di quello che dice, come spiega allora l'avallo della Rossanda all'operazione di Moretti? Francamente non lo so, ripeto: mi è difficile comprendere. Il libro-intervista venne pubblicato per la prima volta nel 1994 da Anabasi, una casa editrice dalla vita effimera, aperta e chiusa nell'arco di tre anni: praticamente pubblicò Brigate rosse: una storia italiana e poco altro. E sa chi era il suo fondatore? No, me lo dica lei. Ne abbiamo già parlato nel corso di questa intervista: Sandro D'Alessandro, uno degli uomini più fidati di Corrado Simioni. È sicuro di quello che dice? Guardi qui, sono ritagli di giornali dei primi anni Novanta, "Panorama", "la Repubblica"... Che cosa c'è scritto? Che Sandro D'Alessandro, ex uomo di vertice alla Feltrinelli, è il fondatore della casa editrice Anabasi. Ma il Sandro D'Alessandro di Anabasi è la stessa persona che frequentava Simioni? Non potrebbe trattarsi di un caso di omonimia? Quando nel 1983 Mastelloni lo interrogò, Sandro D'Alessandro dichiarò che era appena entrato alla Feltrinelli. Di recente, navigando su Internet, mi sono imbattuto nel Catalogo storico pubblicato nel 1985, in occasione del trentesimo anno di vita della casa editrice. Si parla di "Sandro D'Alessandro, entrato nel 1983 e dal 1986, dopo la morte prematura di Franco Occhetto, direttore editoriale". Già questo dovrebbe bastare. Comunque, per tagliare la testa al toro, in quello stesso catalogo c'è una sua fotografia: le assicuro che è la stessa persona che ho conosciuto nella comune di Simioni. Franceschini, lei si riferisce a rapporti tra Simioni e D'Alessandro che risalgono al 1970. Che cosa le fa pensare che il loro legame abbia resistito anche in seguito? Le persone cambiano nel corso degli anni. D'Alessandro, per sua stessa ammissione, è rimasto in contatto con Simioni almeno fino al Natale del 1978, quando andò a trovarlo a Parigi. Tenga poi presente che, durante l'interrogatorio, Mastelloni lo fece arrestare per reticenza, perché si ostinava a proteggere i suoi amici parigini. La caratteristica del gruppo di Simioni è proprio la longevità delle relazioni nate al suo interno. Aspetto che, del resto, ha incuriosito moltissimo proprio gli inquirenti italiani che si sono recati in Francia e diversi magistrati. È infatti una rete di almeno una trentina di persone che sono state insieme per anni, vivendo i loro rapporti sempre all'interno dello stesso gruppo, quasi come una setta. Credo che non sia facile trovare persone che hanno attraversato la drammatica complessità degli anni Settanta rimanendo insieme, in un rapporto strettissimo di protezione reciproca. Dev'esserci qualcosa di estremamente importante a legare il tutto. freccia rossa che punta in alto

11 maggio 2004 - "CHE COSA SONO LE BR" DI FASANELLA E FRANCESCHINI (La Gazzetta del sud)

La certezza di Renato Curcio: "Moretti è una spia" - Le "nuove Br", quelle degli omicidi D'Antona, Biagi, del poliziotto Petri, quelle della Lioce, oggi alla sbarra. E le vecchie Br, quelle di Curcio, Moretti, Franceschini. Secondo uno dei padri fondatori, appunto Roberto Franceschini. Questo terzo libro dell'ex brigatista, un'intervista nella quale il giornalista Fasanella interroga Franceschini, parte dalle domande oggi più urgenti: come spiega la longevità del terrorismo italiano? che idea si è fatto sul conto dei brigatisti di oggi? "Le br non sono nate dal nulla... hanno radici nella storia di questo paese... L'errore più grande, le cui conseguenze paghiamo ancora oggi, è stato quello di aver rimosso il problema, evitando di fare i conti ognuno con le proprie responsabilità". Franceschini parla di "un mito, la rivoluzione comunista, che in Italia è così duro a morire" ma precisa subito: "non penso assolutamente che quest'area (i disobbedienti, i Cobas, Bertinotti, cui faceva riferimento la domanda, ndr) possa essere, come si diceva una volta, l'acqua in cui nuotano i nuovi brigatisti... Noi avevamo un involucro politico in cui vivere: il Pci, la sinistra. I nuovi brigatisti non hanno più una casa", "si tratta di un gruppo di individui senza legami con realtà sociali. Nemmeno li cercano. Si muovono con la logica di una setta che persegue un obiettivo indipendentemente dal contesto sociale: è la logica militarista e organizzativista delle Br morettiane portata alle estreme conseguenze". Dal presente al passato. "Un passato che tuttora incide sull'oggi e lo inquina", come dice nella postfazione un magistrato che sul terrorismo ha lavorato a lungo, Rosario Priore. Il passato è quello delle vecchie Br, le prime, quelle delle auto dei capireparto bruciate, dei sequestri dimostrativi (foto dell'ostaggio con cartello al collo e poi tutti a casa); poi, Curcio e Franceschini ormai in galera, Mara Cagol morta, le Br guidate da Moretti, quelle delle gambizzazioni, degli omicidi di poliziotti, magistrati, giornalisti, fino alla strage di via Fani e all'uccisione di Moro. Un capitolo, nel libro di Franceschini-Fasanella, si intitola "Le stranezze di Moretti" e sviluppa una vecchia tenace idea di Franceschini (ma per la verità era il dubbio di molti giornalisti e magistrati che lavoravano sulle Br): Moretti infiltrato, spia, uomo dei servizi, forse quelli deviati (erano gli anni in cui il Sismi del gen. Santovito assumeva l'agente molto speciale Francesco Pazienza, ndr). L'ex brigatista rilegge la storia a partire dall'aprile '72, la vigilia delle elezioni politiche, quando lui stesso pedinava De Carolis (allora leader della maggioranza silenziosa) pensando, dice, a un sequestro "come una sorta di contro campagna elettorale". Il giorno scelto per il rapimento la polizia interviene e arresta "una ventina di compagni", scopre i covi predisposti per l'operazione. La polizia fa il suo mestiere, obietta Fasanella. "Certo - risponde Franceschini -. Il problema è che lo fecero solo in quell'occasione... sarà un caso ma qualche tempo dopo il nome di De Carolis lo avremmo letto nella lista degli adepti della P2". Ma soprattutto, Moretti, quel giorno arriva con la macchina della moglie davanti al covo, vede la polizia, i giornalisti, e se ne va lasciando lì la vettura, racconta Franceschini. Ma - aggiunge l'ex br - leggendo i giornali scopriamo che la proprietaria di quell'auto, cioè la moglie di Moretti, abita in una stradina privata dove ci sono due portoni, il suo e quello del capo dell'ufficio politico Antonino Allegra. "Possibile che non si siano mai visti?" si chiede Franceschini, possibile che Pisetta, confidente della polizia da anni che era stato accettato nelle Br proprio grazie a Moretti, non avesse fatto il suo nome? Avanti con colpi di fortuna e sbadataggini di Moretti, con i dubbi e i sospetti dei suoi compagni. Fino a quella frase che Curcio dice a Franceschini nel cortile del carcere nel 1976: "Sono certo che Moretti è una spia". E oggi, rispondendo a Fasanella, Franceschini dice: "Guardi, se dovessi datare l'inizio dell'escalation della violenza brigatista, direi che coincide proprio con l'arrivo di Moretti". freccia rossa che punta in alto

13 maggio 2004: CHE COSA SONO LE BR/2
REGGIO EMILIA, '68-'69. FRANCESCHINI E GALLINARI INCONTRANO LUCIO MAGRI: "VOLETE FARE LA RIVOLUZIONE? E IO ME NE TORNO A SCIARE..." - I VECCHI PARTIGIANI CONSEGNANO I MITRA ALLE GIOVANI BR...(Dagospia.com)

- Che cosa sono le Br, l'intervista di Alberto Franceschini al giornalista di Panorama Giovanni Fasanella (Bur-Rizzoli, Euro 8,50), è una miniera di piccole e grandi rivelazioni che aiutano a capire la storia del terrorismo di sinistra in Italia: dai suoi legami con una parte del Pci ai rapporti con la scuola di lingue parigina Hyperion, il cervello politico delle Brigate rosse. Ecco alcuni brani, tratti dal capitolo intitolato L'appartamento. Reggio Emilia, 1968-'69. Siamo ai primordi delle Br. Franceschini è il leader di un gruppo di giovani militanti della Fgci con un piede nel partito e l'altro nella lotta armata. Tra loro, c'è anche Prospero Gallinari. Si riuniscono in un appartamento nel centro storico. Paga l'affitto l'avvocato Corrado Costa, poeta e intellettuale trasgressivo legato all'editore Giangiacomo Feltrinelli. Ecco una parte della lunga testimonianza di Franceschini. Che cosa facevate nell'"appartamento"? Qual era la vostra attività? Alcuni compagni ci vivevano proprio. Altri andavano e venivano. Era un porto di mare. La sede diventò subito un punto di riferimento non solo per moltissimi militanti della Fgci, ma anche per giovani di altra estrazione. Per esempio, venivano da noi i giovani dello Psiup e gli anarchici della Fai. E poi avevamo stabilito rapporti molto interessanti con un gruppo di cattolici del dissenso. Si chiamavano One way, una via. Avevano una libreria e partecipavano a tutti i nostri dibattiti. I loro leader erano i due fratelli Folloni. Uno, Guido, sarebbe poi diventato direttore di "Avvenire", senatore democristiano e, nel 1998, ministro del governo di Massimo D'Alema. Qual era il terreno d'incontro tra voi dell'"appartamento" e i cattolici di One way? Il terzomondismo. Per noi, Che Guevara. Loro facevano riferimento a Camilo Torres, il prete-guerrigliero colombiano. (...) Per il gruppo del Manifesto chi venne a conoscervi? Lucio Magri e Luciana Castellina. Stavano girando l'Italia per reclutare gente dal Pci. E vennero anche da noi perché eravamo già conosciuto come il "gruppo di Reggio". Ci esposero le loro tesi, noi li ascoltammo. Poi, finita l'assemblea, verso l'una, io e Gallinari rimanemmo a chiacchierare con loro. Magri me lo ricordo benissimo per un particolare: eravamo a dicembre e lui era abbronzatissimo. Gli dicemmo che non avevamo capito bene quali fossero le sue posizioni e gli chiedemmo di spiegarci che cosa pensava della lotta armata. Magri tergiversava, o non aveva le idee molto chiare, o forse aveva paura di sbilanciarsi. Allora gli dicemmo fuori dai denti che noi, la rivoluzione, la stavamo organizzando sul serio. Lui ci guardò come stralunato, poi gli caddero le braccia e disse: "Ma allora, se voi volete fare veramente queste cose, io me ne torno a sciare". "Tu tornerai a sciare", gli rispose serissimo Gallinari, "non noi". E Magri non si fece più vivo. (...) Come vi eravate organizzati?
Intorno all'"appartamento" ruotavano un centinaio di giovani. Il nostro era un ambiente molto aperto e ci ponemmo il problema di come agire senza correre troppi rischi. Pensammo che l'unico modo fosse quello di costruire una sorta di doppio livello clandestino, dove agisse un gruppo ristretto di persone. Selezionammo 20-30 compagni, i più determinati, gli stessi che più tardi avrebbero formato il nucleo più agguerrito delle prime Brigate rosse. E cominciammo a esercitarci andando a sparare sulle montagne con i mitra che ci davano gli ex partigiani. Quei partigiani sapevano che cosa stavate preparando? Sapevano che le loro armi noi le avremmo usate. Avevano fatto la guerra di Liberazione, dopo il 25 aprile avrebbero voluto continuare a combattere per costruire una società socialista, ma il Pci, il loro partito, li aveva traditi. Non avevano più l'età per ritornare sulle montagne, e passarono a noi ragazzi le loro armi, con la certezza che le avremmo usate. (...) freccia rossa che punta in alto

14 maggio 2004 (L'Adige) - Gli anni di piombo, Giorgio Galli a Trento: Le Br e gli infiniti misteri italici Giorgio Galli a Trento con il suo libro: svelate le manovre dei servizi segreti.

«Sulla vicenda del rapimento Moro non bisogna perdersi nelle nebbie delle ipotesi e dei complotti. Occorre però cercare la risposta a due domande. La prima: nell´assalto alla scorta dell´onorevole Moro vengono sparati 91 colpi, di cui 47 colpi da un´arma mai ritrovata, in mano a un tiratore scelto di grande esperienza, che si muove liberamente e uccide la scorta senza scalfire Moro. Altri 22 colpi sono sparati da una mitraglietta, in mano a un tiratore scelto di buona abilità. Invece, tutti i colpi sparati dai brigatisti vanno a vuoto. La domanda: chi era quel tiratore di grande capacità operativa militare? Seconda domanda: dove (e da chi) è stato tenuto prigioniero Moro negli ultimi giorni del rapimento? Le ricostruzioni fatte dai brigatisti in questi anni presentano un sacco di lacune e contraddizioni. Ma certo Moro non fu ucciso e trasportato nella Renault come ci hanno raccontato. Il problema è che le risposte a queste domande avrebbero effetti molto pesanti sulla politica dei nostri giorni».
È questo il passaggio chiave della lunga conferenza tenuta l´altroieri dal professor Giorgio Galli, politologo e grande esperto degli «anni di piombo», invitato a Trento da Asut, Arci e Altrimondi. Galli presentava il suo nuovo volume «Piombo rosso» edito da Baldini e Castoldi. Una versione aggiornata ed ampliata del suo fondamentale «Storia della lotta armata in Italia».
Galli - che parlava nell´aula 1 di Sociologia - ha esordito con un ricordo degli anni caldi in cui insegnò a Trento: «Dal ´71 al ´73 - dice il professore - chiamato da Alberoni che cerca docenti in grado di dimostrare alla comunità trentina che sì, vogliamo la rivoluzione, ma siamo anche brave persone». E il cartellone appeso alle sue spalle («Aula Rostagno - ciò che non siamo più») gli fa rimembrare quel ragazzo, leader carismatico dell´assemblea, con affetto. Poi però Galli, incalzato dalle domande di un preparatissimo Fabrizio Franchi, entra nel vivo della questione: il groviglio maleodorante della storia della lotta armata in Italia, che puzza di servizi segreti, di politica, di accordi, di illusioni e naturalmente di vittime. Per cominciare, gli viene chiesto come mai in Italia la lotta armata duri ancora, a distanza di 30 anni. Galli individua le radici di questa anomalia soprattutto nell´instabilità della situazione politica italiana «in un certo senso, ancor oggi non stabilizzata». E non può far a meno di ricordare che questa instabilità nutre anche le manovre dei servizi segreti. «I servizi che devono combattere le Brigate Rosse - spiega il professore - almeno fino all´arrivo di Dalla Chiesa ritengono di essere un surrogato del sistema politico debole. Lavorano in un sistema in cui un partito comunista arriva alle soglie del governo ed ha il 30 per cento dei voti. Fino agli anni Settanta vasti settori dei servizi pensano - pur divisi al loro interno - che si possa gestire una certa instabilità. Così anche quando le Br sembrano sconfitte per sempre, ed accadrà più volte, i servizi costruiscono un loro Stato nello Stato, e ritengono di essere garanti di un ordine che lo Stato non riesce a mantenere». Per Galli, la storia delle Br fino ai nostri giorni è intessuta del controllo dei servizi che certamente osservano le Br da vicino, vi inseriscono uomini infiltrati, in molti casi usano e pilotano le Br dall´interno. Ed è qui che i misteri del caso Moro si intrecciano alle manovre. Però riguardo al rapimento Moro, Galli non crede alla teoria del complotto. Così come non crede alle ricostruzioni del brigatista Franceschini, e nemmeno alle verità di Moretti. Sentire Galli che parla è come consultare un´enciclopedia parlante della lotta armata. Volete una prova del ruolo dei servizi segreti nella strategia del terrore? Galli ne sciorina a decine: dalla vicenda del rapimento Sossi, quando Miceli e le forze dell´ordine sono appostate in una villetta di fronte a quella dove le Br hanno l´ostaggio, fino allo sconcertante caso Lioce, la brigatista arrestata pochi mesi fa. «Già nel 1999 - spiega Galli - a tre settimane dall´assassinio di D´Antona, una giornalista di Repubblica che fa bene il suo mestiere e quindi è in contatto anche con i servizi segreti, scrive sul giornale che c´è di mezzo una brigatista che si chiama Desdemona. Desdemona Lioce viene presa anni dopo. Ma è chiaro che i servizi segreti osservano e controllano anche le "nuove Br" e in molti casi si limitano a vedere cosa fanno». Più volte Giorgio Galli ammonisce però sulla natura di questi «servizi» segreti. «Si tratta di organismi diversi - dice guardando alla storia degli ultimi trent´anni -: ci sono i carabinieri, il Sisde, il Sismi... ciascuno con le proprie strategie e le proprie aspirazioni anche di carriera. Certo che la loro esistenza e i loro successi si giustificano e si alimentano solo se in Italia c´è un clima di terrore e di terrorismo. E quindi torniamo al clima di instabilità politica di cui parliamo prima».
In tutta la serata, è il caso Moro a tenere banco. Anche nelle domande del pubblico. Galli ricorda che tutto ciò che sappiamo è ampiamente sterilizzato: «Certo, con il rapimento Moro le Br sorprendono anche i servizi che pure le stavano osservando: avevano sottovalutato le capacità operative della colonna romana di Moretti». Ma le cose cambiano durante i giorni del rapimento: «Il 18 aprile 1978, dopo la messa in scena del covo di via Gradoli e del Lago della Duchessa, Moretti capisce che le Br sono controllate dai servizi. Incredibilmente Moretti può viaggiare liberamente, si reca in Francia dove va a chiedere un consiglio al "super gruppo" che fa capo al Centro Hyperion di Parigi. Probabilmente gli viene consigliato di trattare con i servizi, cosa che fa poco dopo. Alla fine - spiega Galli - Moretti contratta la sopravvivenza delle Br con la consegna delle carte di Moro ai servizi segreti. Ricordiamoci che i famosi memoriali che Moro scrisse a mano durante il sequestro, nessuno li ha mai visti. Abbiamo delle copie dattiloscritte, mentre gli originali secondo i Br vennero bruciati. Figuriamoci.... - dice Galli - : hai in mano le carte scritte di pugno di Moro che svela Gladio, i rapporti con le banche e con la mafia, e le distruggi?».
Tanti, tanti, tantissimi misteri. Dalla sala chiedono a Galli come mai nessuno dei brigatisti abbia mai svelato i segreti. «Basta guardare come vivono oggi - dice l´autore -: Moretti esce di prigione, ha una compagna e una bambina piccola, e fa tutto sommato una vita quasi normale; Franceschini è libero... in fondo, hanno tutto l´interesse a vivere». E dalla sala, amaramente, sale il commento: «In fondo... ai brigatisti è andata molto meglio che a Sofri». E Galli annuisce, allargando le braccia. freccia rossa che punta in alto

21 maggio 2004 - "LA SFINGE DELLE BRIGATE ROSSE", LIBRO FLAMIGNI SU MORETTI.

Mario Moretti, capo delle Brigate rosse del dopo-Curcio e principale gestore del rapimento Moro, e' al centro del nuovo libro dell' ex senatore Sergio Flamigni, che del caso Moro e' forse il piu' importante studioso. La recente storiografia 'revisionista', Vladimiro Satta in testa, lo accusa di essere un 'dietrologo', ma e' innegabile il merito di Flamigni di aver insistentemente segnalato la probabile esistenza di carte non trovate nella prima perquisizione del covo milanese di via Monte Nevoso e di un quarto 'carceriere' di Moro, due ipotesi poi dimostrate esatte dai fatti, smentendo i tanti che gia' allora sostenevano che nel caso Moro non c'era piu' nulla da chiarire. Nel libro, la biografia di Moretti sembra sfuggire del tutto alla teoria cara a Rossana Rossanda delle Br sorte dall' 'album di famiglia' del comunismo italiano. La famiglia di Moretti infatti e' lontana dalla tradizione della sinistra, alcuni parenti sono fascisti, lui stesso frequenta parrocchie e scuole religiose e, dopo la morte del padre, fa le scuole superiori, professando idee di destra, in un convitto di Fermo (Ascoli Piceno) grazie all'aiuto economico della nobile famiglia milanese dei Casati Stampa di Soncino, quei Camillo e Anna protagonisti nel 1970 di un clamoroso caso di cronaca, quando il marchese Camillo uccise la bellissima moglie e il giovane amante di lei. La loro villa San Martino di Arcore sara' poi acquistata dal giovane imprenditore Silvio Berlusconi. Finiti gli studi, Moretti si trasferisce a Milano, si iscrive all' Universita' cattolica con una dichiarazione del viceparroco che garantisce che il giovane "professa sane idee religiose e politiche" e, grazie alla raccomandazione dei Casati Stampa, viene assunto alla Sit-Siemens, dove si iscrive alla Cisl. Alla Sit-Siemens avviene la politicizzazione di Moretti, che frequenta il Cpm (Collettivo politico metropolitano) guidato da Renato Curcio e Corrado Simioni. Quando le strade dei due si divaricano, con Curcio che fonda le Brigate rosse e Simioni che segue il proprio progetto di un' organizzazione superclandestina (da cui il nome di 'Superclan') che infiltri tutte le realta' della sinistra rivoluzionaria, Moretti segue Simioni, ma poi rientra nelle Br (lo stesso fara' poco dopo Gallinari) portando avanti una linea che privilegia l'aspetto 'militarista' rispetto a quello 'politico'. Secondo Alberto Franceschini, uno dei padri fondatori delle Br, Moretti sarebbe rientrato in accordo con Simioni (che qualcuno ha riconosciuto nella descrizione del 'grande vecchio' data nel 1980 da Bettino Craxi) e i rapporti tra i due non sarebbero mai cessati (il pruriricercato Moretti, negli anni successivi, si rechera' numerose volte a Parigi, sfuggendo tranquillamente a tutti i controlli.
Nel settembre 1974, grazie al contributo dell' infiltrato 'Frate Mitra', Curcio e Franceschini, che avevano con se' gli schedari portati via qualche mese prima dalla sede del 'Comitato di Resistenza Democratica' di Edgardo Sogno, sono arrestati. Una soffiata sulla minaccia arriva a Moretti, che non riesce ad avvertirli in tempo (o non vuole ?) e resta cosi' il principale leader delle Brigate rosse, anche perche', poco dopo, Mara Cagol sara' uccisa e Giorgio Semeria gravemente ferito, entrambi in circostanze poco chiare. E nel libro di Flamigni la storia di Moretti si intreccia spesso con quella della 'strategia della tensione' e con quella di Edgardo Sogno e dei suoi principali collaboratori, gli ex comunisti Luigi Cavallo e Roberto Dotti, quel Roberto Dotti al quale Simioni aveva raccomandato a Mara Cagol di rivolgersi per qualsiasi emergenza. Sembra quasi che l' obiettivo sia comune: attaccare il Pci e ridurre il suo peso nella societa' italiana. Flamigni segnala anche la stranezza che la fidanzata e i futuri suoceri di Moretti abitavano nello stesso edificio dove c'era la sede di Luigi Cavallo e che, dopo il matrimonio, Moretti e la moglie vanno a vivere in una piccola strada dove abitano anche Roberto Dotti e il capo dellþUfficio politico della Questura Antonino Allegra. Con la leadership di Moretti, la 'Primula rossa' che per 10 anni sfugge a tutte le ricerche, le Br alzano il tiro e passano dalla 'propaganda armata' (rapimenti dimostrativi e azioni punitive) all'attacco al cuore dello Stato' con gambizzazioni e omicidi. Anche nelle Br qualcuno sospetta che Moretti sia una spia, ma l'inchiesta fatta da Bonisoli e Azzolini lo scagiona. Nel 1981 la lunga latitanza di Moretti si conclude a Milano, grazie alla soffiata di un fiancheggiatore spacciatore di droga. Pochi mesi dopo, nel carcere di Cuneo, Moretti e' aggredito e ferito con un coltello da un ergastolano comune, per motivi mai chiariti, ma che sembrano un avvertimento. Cominciano i processi e Moretti si ritrova con sei condanne all'ergastolo. A gennaio 1993, dopo meno di 12 anni di carcere, usufruisce del primo permesso premio. Nell' estate dello stesso anno, Moretti, in una lunga intervista a Carla Mosca e Rossana Rossanda, racconta la sua versione, che diventa un libro pubblicato da un editore ex militante del Superclan. Moretti avalla la ricostruzione del caso Moro fornita da Morucci e Faranda e si accolla la responsabilita' di aver ucciso Moro, scagionando Gallinari. Passano quattro anni e, nell' estate del 1997, il capo delle Br ottiene la semiliberta'. In una polemico capitoletto conclusivo Flamigni risponde alle critiche di chi lo accusa di fare dietrologia. E ribadisce alcune sue convinzioni: 1) "La verità ufficiale raccontata dai brigatisti e sancita dai tribunali come tale è in più punti inverosimile". 2) "Non credo alla purezza rivoluzionaria delle Brigate rosse morettiane e man che meno a quella del loro capo". 3) "Sono convinto che nel delitto Moro vi siano state implicazioni dei servizi segreti e collusioni 'atlantiche'". Avrà ragione anche stavolta? freccia rossa che punta in alto

TERRORISMO: MARIO MORETTI E GLI STRANI VICINI DI CASA NEL NUOVO LIBRO DI FLAMIGNI I COVI BR IN LUOGHI SINGOLARI

Mario Moretti, il capo indiscusso delle Brigate rosse nel periodo dal 1974 al 1981, aveva l' abitudine, o la sorte, di trovare covi o abitazioni con vicini di casa imbarazzanti o pericolosi. Questa strana caratteristica di Moretti, definito per anni la "Primula Rossa" delle Br, emerge dal nuovo libro dei Sergio Flamigni (ex senatore del Pci, che per anni ha fatto parte delle commissioni P2, Moro e Antimafia): "La sfinge delle Brigate rosse - Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti", che sta per uscire. Quando Moretti arriva a Milano dalle Marche - fa notare Flamigni - la sua fidanzata diventa Amelia, che poi sposera' e dalla quale divorziera'. La ragazza abita con i genitori in via Gallarate 131, nello stesso palazzo in cui era la sede milanese di Luigi Cavallo, un ex comunista diventato poi il principale collaboratore di Edgardo Sogno, ex partigiano della 'Franchi', accusato nel 1974 di preparare un 'golpe bianco' e poi scagionato (ma in un libro pubblicato postumo, lo stesso Sogno ammettera' di aver preparato un colpo di Stato). Quando poi Mario Moretti e Amelia si sposano, vanno a vivere in un appartamentino in via delle Ande 16. Ma anche qui ci sono vicini da cui un terrorista dovrebbe stare alla larga. Al numero 15, a pochi metri dai Moretti, abita Antonino Allegra, capo dell' Ufficio politico della Questura milanese, e poco piu' in la', al numero 5, abita un altro importante collaboratore di Edgardo Sogno, Roberto Dotti, anche lui ex comunista pentito. Dotti, tra l' altro, e' al centro di un altro imbarazzante mistero: Corrado Simioni, il capo del Superclan (organizzazione nata dalla stessa costola delle Br e poi fondatore della scuola di lingue Hyperion, a Parigi) avrebbe detto a Mara Cagol (moglie di Renato Curcio) di consegnare proprio a Dotti le schede dei nuovi aderenti. E la storia non finisce qui, perche' anche a Roma, nel famoso covo di via Gradoli 96 in cui Moretti viveva al tempo del rapimento Moro, c' erano, solo in quella palazzina, ben 24 appartamenti di "proprieta' di societa' immobiliari nei cui organismi societari vi sono alcuni funzionari del servizio segreto civile" e lo stesso Vincenzo Parisi, capo del Sisde, acquistera' poi alcuni appartamenti in via Gradoli. In un appartamento vicino al covo abitava una donna egiziana, informatrice della polizia, che infatti segnalera' qualcosa di strano nell' appartamento di Moretti e Barbara Balzerani. Inoltre, al numero 89, proprio di fronte al covo, abitava un sottufficiale dei carabinieri, in forza al Sismi, anche lui, come Moretti, originario di Porto San Giorgio. freccia rossa che punta in alto

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