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Roberto bartali.it

Giugno 2003

4 giugno 2003
CASO MORO E "ANELLO": DE MICHELIS
- Dopo Rino Formica, Gianni De Michelis. Con l'opinione del segretario del Nuovo Psi prosegue il viaggio di Clorofilla nei retroscena del rapimento e della morte dello statista Dc: "Indagate su Taviani".

Caso Moro. "L'Anello? È strano che emerga solo ora questa storia" di Alessio Iacona. Un superservizio segreto alle dipendenze (informali) della presidenza del Consiglio. Una struttura clandestina, chiamata l'Anello, nata nel primo dopo guerra e che avrebbe potuto, nel 1978, svolgere un ruolo fondamentale nella liberazione del presidente Aldo Moro, in mano alle Brigate Rosse. Ma che non agì, sebbene avesse scoperto il covo dove lo statista era rinchiuso, perché l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti ordinò di lasciar perdere dicendo: "Moro vivo non serve più a nessuno". Roma - Lo scenario descritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli in una lunga inchiesta, pubblicata a fine maggio da Diario. Un'indagine che svela nuovi retroscena del rapimento Moro, ma la cui pubblicazione è stata accolta dal silenzio quasi impenetrabile dei media italiani. Clorofilla, invece, continua la sua inchiesta e, dopo l'ex ministro socialista Rino Formica, chiede all'onorevole Gianni De Michelis cosa pensi dell'inchiesta di Cucchiarelli: "Io non posso sapere se l'anello esiste o non esiste - risponde - vorrei però capire perché proprio ora qualcuno ha avuto interesse a raccontare questa storia. Qual è la ragione che, a dieci anni dalla fine della logica di Yalta, ha spinto qualcuno a tirare fuori queste cose". In un libro uscito da poco, De Michelis racconta infatti la storia degli ultimi 50 anni in Italia ("L'ombra lunga di Yalta", Marsilio editore), descrivendo l'intesa secondo la quale l'Italia è stata divisa non fisicamente come la Germania ma all'interno, in una parte corrispondente alla logica dell'Est e una a quella dell'Ovest. "Questa divisione ha fatto sì - spiega - che nel Paese per 50 anni le logiche del 'sopra il tavolo' e 'sotto il tavolo' si siano mescolate. Quello che è successo sotto il tavolo lo conosco solo in parte, e può darsi che ci sia stato anche l'Anello. Bisogna vedere le prove". Prove a parte, l'ex presidente Francesco Cossiga ha dichiarato a Clorofilla che, per quanto ne sa lui l'Anello non esiste: "Può darsi che abbia ragione e lui ne sapeva certo più di me. Ma - aggiunge l'ex ministro socialista - anche Cossiga dovrebbe dire la sua sul perché una storia del genere sia stata inventata adesso". Anzi, rincara, sarebbe il caso di chiederlo a Deaglio, direttore di una rivista che, testuali parole, "campa sull'inventarsi le cose". Se non sulla veridicità dell'inchiesta, è lecito avanzare ipotesi sul perché questi fatti emergano soltanto oggi: non bisogna infatti dimenticare che il pubblico ministero responsabile dell'inchiesta sull'Anello, Franco Ionta, ha da poco chiesto al giudice per le indagini preliminari di archiviare il caso per la caduta di molti reati in prescrizione. Ciò può in parte spiegare la pubblicazione tardiva dell'indagine di Cucchiarelli. "Lo stesso nome 'Anello' mi sembra un po' ridicolo - commenta De Michelis - voglio dire, Tolkien l'abbiamo letto tutti. È come quando sento Igor Marini parlare del 'ranocchio', la 'cicogna' e la 'mortadella'. Mi fa ridere l'idea che qualcuno possa pensare che si usassero dei soprannomi come quelli. Questo fa torto all'intelligenza media non degli italiani, ma degli esseri umani in generale. Se davvero si vuol ragionare seriamente del 'sotto il tavolo', - aggiunge - non si può pensare che tre persone organizzino un reato di quel tipo e diano a se stessi dei soprannomi per nascondere la loro identità come Mortadella (Prodi), Cicogna (Fassino) e Ranocchio (Dini)". L'ex ministro degli esteri fa riferimento allo scandalo Telekom Serbia, per l'acquisto della quale Telecom Italia avrebbe versato una tangente da 33miliardi di vecchie lire nel '97. È quanto sostiene il faccendiere Igor Marini, secondo cui questi soldi sarebbero andati a finire su un conto in Svizzera e poi nelle tasche anche di Prodi, Dini, e Fassino, allora rispettivamente capo del governo, ministro degli Esteri e sottosegretario alla Farnesina. Una storia che torna a galla ogni volta che si parla della candidatura di Prodi nelle file del centrosinistra alle prossime elezioni politiche. Ma cosa pensa De Michelis del caso moro a 25 anni di distanza? "Non ho letture né notizie particolari - risponde - Credo che la logica di Yalta abbia operato più che mai in quel momento. Una logica secondo la quale l'Italia, essendo stata divisa in due sfere d'influenza, era stata messa sotto controllo in modo tale che esistesse una specie di termostato per cui nessuno potesse debordare dai limiti che i due fronti si erano reciprocamente imposti Dopodiché - prosegue - il caso Moro potrebbe essere interpretato come una scheggia impazzita sfuggita a questo controllo. L'interpretazione di Cucchiarelli è solo una delle molte possibili". Dunque, secondo il leader del Nuovo Psi, la verità storica dettagliata non si saprà mai: "Quello che conta invece è il tentativo di lettura complessiva del periodo - spiega - della fase precedente e di quella successiva, perché se l'interpretazione è quella che ho dato io, si capisce anche mani pulite". L'unico dato di fatto è che, a distanza di 25 anni, non si riesce a fare luce sul caso Moro. Per la stessa ragione, suggerisce De Michelis, che ha impedito di fare chiarezza sull'assassinio di Kennedy: "È sempre questo misto di 'sopra al tavolo' e 'sotto il tavolo'. Adesso ci si occupa della questione Moro non tanto per i 25 anni dalla sua morte, quanto per il fatto che è stato fatto un film. 'Piazza delle 5 lune' vale come Jfk di Stone: per lanciarlo si è puntato ad agitare un po' le acque. E voi vi prestate come Deaglio a fare di propaganda al film". Secondo l'ex ministro socialista in questa Italia che ormai è provinciale e di terza fila, Martinelli ha fatto una specie di Jfk, "ma questi intellettuali italiani non sono neanche capaci di copiare. Il film non l'ho visto e non lo voglio giudicare. Boccio l'operazione politico-intellettuale". Non è la prima critica subita dal regista, il quale si è già difeso sostenendo che il cinema italiano è quasi tutto intrattenimento. "Non è vero - risponde De Michelis - perché da Rosi in poi il cinema italiano film di questo genere ne ha fatti. Il mio amico Giuseppe Ferrara si è specializzato nel fare film come questi. Martinelli è solo un tardo epigono in un filone che c'è sempre stato. Non può alzare la bandiera di quello per la prima volta che fa il cinema che disvela la storia. Presenta delle storie filmate - chiarisce - delle verità che non può dimostrare per farsi un po' di propaganda e avere più spettatori". Infine, l'occasione è ghiotta per chiedere al leader socialista come giudica il ruolo svolto da Taviani all'epoca del rapimento dello statista Democristiano: "Nel mio libro sostengo che Taviani sia stata una figura chiave nella logica di Yalta. Un logica di cogestione: i due partiti più uguali degli altri erano il Pci e la democrazia cristiana. Dalla parte dei comunisti i soggetti erano quel gruppo dirigente collettivo che stava nella logica comunista, quello che io chiamo il Kgb italiano. Nella Dc - continua - credo che Taviani abbia giocato un ruolo assolutamente straordinario. E non a caso Taviani e Violante, nell'epoca di Moro, si sono trovati dalla medesima parte della barricata". Una teoria che sembra ben spiegare anche il modo in cui l'allora ministro si adoperò per screditare Moro. "Il presidente della Dc conosceva così bene questa logica di Yalta da rappresentare un pericolo. Tra l'altro basta leggere le memorie di Taviani e osservare come, nell'ultima parte della sua vita, egli sia stato così filocomunista, pur essendo sempre stato sempre un democristiano moderato. O anche perché, nella fase di mani pulite, Taviani sia stato così dalla parte di mani pulite". Dunque il suggerimento dell'onorevole Gianni De Michelis è indagare ancora sul filone Taviani. Grazie, già fatto. freccia rossa che punta in alto

10 giugno 2003 (Dagospia)
MORO PER SEMPRE - CASO MORO: IL FILM DI BELLOCCHIO
IL FILM SEGRETO DI MARCO BELLOCCHIO SULLE BRIGATE ROSSE (VISTE DALL'INTERNO...)

- Una giovane donna, Anna, carina, con i capelli lisci, s'aggira nervosamente per la casa. Aspetta qualcuno. Alla tv parlano di una sparatoria in via Fani, a Roma. Aldo Moro è stato rapito da un commando delle Br. Passano le prime immagini del massacro. Lei guarda l'orologio. Di lì a poco suonano alla porta. La cassa di legno è arrivata a destinazione: il tempo di aprirla. Pigiato lì dentro, mezzo addormentato, dolorante, il presidente della Dc. Anna è Anna Laura Braghetti, la cosiddetta "vivandiera" del covo di via Montalcini. Accanto a lei, ad uno ad uno, compaiono Mario Moretti, Prospero Gallinari e Germano Maccari. Comincia così "Buongiorno notte", il film che Marco Bellocchio ha appena finito di girare (produce Raicinema insieme alla Albatros) nella più inaccessibile segretezza. Non un'intervista, non una visita sul set, non una fotografia. Reduce dal successo di "L'ora di religione", il sessantenne cineasta piacentino ha voluto stendere una cortina di silenzio attorno a questo progetto. Delicatissimo. Nel venticinquesimo anniversario della morte di Moro, il cinema sembra essersi svegliato all'improvviso. Prima "Piazza della Cinque Lune", il controverso thriller di Renzo Martinelli che ha ricostruito in chiave fantapolitica incongruenze, depistaggi e bugie del caso; a settembre, sempre che sia pronto per Venezia, il film di Bellocchio, ben diverso per sensibilità, stile, respiro. Non una ricostruzione dell'affaire Moro, per dirla con Sciascia, bensì un viaggio quasi intimista - se la parola non stonasse di fronte all'orrore di quella morte - nelle psicologie, nei gesti quotidiani, nei pensieri, nelle paure di quei quattro carcerieri. Partendo dallo sguardo di Anna, la brigatista che quasi due mesi dopo voterà contro la decisione di "giustiziare" lo statista dc, perché "quei 55 giorni di prigionia e sofferenza erano sufficienti". Film misterioso. E molto bellocchiano. Al regista non importa stabilire se Moretti fosse o no un infiltrato dei servizi segreti o se la sorte di Moro fosse segnata sin dall'inizio a causa del fronte della fermezza. Mentre rifiniva il copione spiegò: "Voglio fare un film autonomo, molto, molto libero, in qualche modo inventato, che arrivi a prendersi delle libertà anche dalla verità storica. Mi interessa andare a scavare nell'animo dei personaggi, tra il groviglio di sentimenti che si cela in un gruppo di giovani che ha compiuto azioni gravi come un sequestro di persona in nome di un'ideologia, di una fede". Impossibile estorcergli altro, anche ora che "Buongiorno notte" è al montaggio, in attesa di prendere forma. A partire dal titolo, presso in prestito a una poesia di Emily Dickinson ("Buongiorno notte / sto tornando a casa / Il giorno si è stancato di me / Come potrei io di lui?"), il film si propone come una riflessione personale, dolente, sugli "anni di piombo". Il cineasta che da giovane militò nell'Unione dei comunisti marxisti-leninisti, sposandone l'infatuazione maoista, oggi preferisce scavare alla sua maniera quieta e laica nel delirio ideologico di quei brigatisti fiduciosi nell'avvento della rivoluzione e intrappolati nei rituali della clandestinità. Scrive la Braghetti, nel libro "Il prigioniero": "Per uccidere qualcuno che non ti ha fatto niente, che non conosci, che non odi, devi mettere da parte l'umana pietà, in un angolo buio e chiuso, e non passare mai più lì con il pensiero. Perché sennò, con le emozione, viene a galla l'orrore". È questo il cuore del film, che Bellocchio affida al personaggio di Anna, incarnata da Maya Sansa, dimagrita rispetto alla pienezza materna di "La balia". La cinepresa la pedina nella sua doppia vita: da un lato efficiente carceriera di Moro, militante pronta a sparare, fidanzata di Gallinari seppure nella rigida scansione dei turni e dei ruoli; dall'altro insospettabile ragazza chiamata a recitare la normalità del quotidiano: un ufficio al ministero, un lavoro, dei colleghi, un ragazzo che sembra leggerla nel profondo, più di quanto lei stessa riesca a fare. Ma alla lunga Anna non regge. La ferocia distruttiva di chi le vive vicino o le dorme accanto mette in crisi l'utopia rivoluzionaria. La terrorista si scopre in conflitto con i suoi compagni, sogna addirittura di liberare "il prigioniero" (chissà se la sequenza onirica resterà nel montaggio finale, insieme alla preghiera a tavola dei br), si oppone, nella scena drammatica che ricostruisce l'ultima riunione, alla decisione di ucciderlo. È Roberto Herlitzka, con quel suo viso scavato e patibolare e la bella voce pastosa, a incarnare Moro: rassegnato agli eventi, spiato e interrogato da Moretti, il duro della situazione, che sullo schermo avrà la bella faccia, appena invigorita dai baffi, di Luigi Lo Cascio, l'eroe di "I cento passi". Mentre Piergiorgio Bellocchio, figlio del regista e produttore in proprio, interpreterà Maccari, ovvero il misterioso "signor Altobelli", l'uomo che allestì la "prigione del popolo" dentro l'appartamento di via Montalcini e che forse, quella mattina del 9 maggio '78, sparò nel garage la raffica letale. freccia rossa che punta in alto

11 giugno 2003
CASO MORO: CLOROFILLA PRESENTA NUOVO LIBRO DI BISCIONE: "La P2 è viva e lotta in mezzo a noi".

Il 19 giugno prossimo, alle 18.00, a Roma presso la Fondazione Basso verrà presentato il nuovo libro di Francesco M. Biscione. A Clorofilla alcune anticipazioni dall'autore "impressionato" dall'inchiesta sullo statista Dc realizzata dal cronista parlamentare, Paolo Cucchiarelli "Siamo vicini alla verità sul caso Moro" di Francesca Onorati - Francesco M. Biscione si dedica da anni allo studio della storia contemporanea. Noi di Clorofilla lo avevamo già incontrato in occasione del 25ennale dalla morte di Aldo Moro per trovare nuove ipotesi e rivelazioni legate al Memoriale dello statista democristiano, di cui Biscione è il maggiore e il più onesto conoscitore. Oggi torniamo a parlare con lui, poiché proprio dalla lettura di quelle carte, è nato lo spunto per un libro, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell'antifascismo, edito recentemente da Bollati Boringhieri, che apre nuovi scenari sulla storia della prima e della seconda repubblica italiana e aiuta a comprendere molte delle vicende politiche attuali. Con l'espressione il "sommerso della repubblica" lei definisce quell'insieme di forze extraistituzionali che, nel corso della prima repubblica, mirarono progressivamente a escludere i comunisti dal governo e a liquidare il sistema politico fondato sull'antifascismo... La storia politico-istituzionale del paese e la storia della società italiana non hanno proceduto di pari passo. La nostra vicenda istituzionale è, in sintesi, lo sviluppo del progetto repubblicano e costituzionale che si affermò negli anni 1943-48, dai grandi scioperi del marzo '43 fino alla promulgazione della Costituzione, attraverso la guerra di Liberazione e i governi del Comitato di liberazione nazionale. Nel '47, in concomitanza con il dispiegarsi della guerra fredda, avvenne una rottura tra i partiti antifascisti, e le sinistre (il Pci e il Psi) furono costrette a lasciare il governo per passare all'opposizione. Questo fatto non mise in discussione il patto costituzionale, attorno al quale si era formata la classe politica della cosiddetta prima Repubblica e che è rimasto a lungo il riferimento operante di tutte le forze politiche. Su un altro versante però, questo patto non coinvolgeva per intero il paese, nel senso che molti strati sociali non si riconoscevano in esso e, di fatto, lo subivano. Pensi soltanto al successo che ebbe nell'immediato dopoguerra la destra qualunquista. Secondo lei i berlusconiani sono eredi di quella destra, di quei settori dell'esercito e dell'imprenditoria che in funzione antigovernativa attuarono pratiche golpiste e ebbero un ruolo nell'applicare la strategia della tensione. Come si è arrivati oggi a cogliere quell'eredità? Negli equilibri che si stabilirono nel 1947-48 la Democrazia cristiana ha avuto un fondamentale ruolo di mediazione. Partito antifascista e democratico, ha tentato di contemperare due diverse esigenze: tener fede al patto costituzionale e dare spazio alle pulsioni di una società complessa e articolata. Nel far questo però ha anche dovuto legittimare una parte delle pulsioni provenienti dal sommerso. Per esempio, non sono recenti, né marginali, i rapporti tra settori della Dc e il crimine organizzato in Sicilia. Con la fine della Dc - dovuta largamente al crollo dell'Unione Sovietica - l'area politica del sommerso è stata largamente intercettata da Forza Italia, partito che, per formazione e cultura, non appartiene alla tradizione dell'antifascismo. Non vi è però un rapporto diretto e meccanico tra il sommerso e la strategia della tensione. Perché secondo lei il "Piano di rinascita democratica" elaborato dalla P2 è pertinente al dibattito attuale e foriero di idee vive ancora oggi? La P2 dispiega le ali nel 1975-76, allorché appare chiaro che il sistema politico nato nel dopoguerra si sta avviando verso una crisi grave, perché non riesce a far scaturire dal suo seno un'opposizione credibile (il legame del Pci con Mosca è ancora vivo e costituisce un serio impedimento a una piena assunzione di responsabilità governative da parte del maggior partito di sinistra). Il progetto piduista prevede il superamento di quel quadro politico, cioè della cosiddetta prima Repubblica, ma anche la liquidazione di tutti o di gran parte degli organismi di controllo e di sindacato su cui si fonda una società complessa. In questo senso il piano della P2 costituisce la base per una revanche delle classi dirigenti stanche non solo dei lacci e dei lacciuoli della burocrazia, ma insofferenti alla stessa democrazia. Il progetto di Berlusconi è, nelle mutate condizioni storiche, il medesimo di allora. Per questo non si capisce Berlusconi senza comprendere la P2, come non si capisce la P2 senza comprendere il ruolo della strategia della tensione. Quanto di questa riflessione le è stato suggerito dal Memoriale di Moro e quanta consapevolezza aveva Moro della conflittualità interna al tessuto politico e sociale del paese? Mi pare vi sia una continuità sostanziale tra quest'ultimo libro e la mia ricerca precedente. Nel Memoriale mi aveva colpito la visione complessiva del processo storico; allora mi ero messo a cercare se e in quale misura alcuni giudizi espressi da Moro erano fondati. Ho scoperto alcuni aspetti poco noti del potere in Italia negli anni Settanta, ma sono riuscito a capire anche il drammatico bilico nel quale Aldo Moro si era trovato nel voler compiere un'operazione così controcorrente - ancorché obbligata, dal punto di vista del sistema politico italiano - come quella di portare il Pci al governo. Per rispondere alla sua domanda in senso stretto, in Aldo Moro, e non solo negli scritti del "carcere del popolo", ho trovato la più elevata e lucida consapevolezza su quali fossero il destino, la missione e i vincoli del partito democristiano. Una delle più acute e affascinanti descrizioni del sommerso si deve proprio a lui. Che idea si è fatto del caso Moro, dopo le recenti rivelazioni esposte nei libri di Fasanella, di Satta, di Flamigni? Il libro di Fasanella e Rocca, per la parte relativa al delitto Moro, mi è parso un po' azzardato, nel senso che enfatizza indizi pur consistenti ma che non consentono, oggi, una ricostruzione convincente del ruolo di Igor Markevic nel sequestro Moro. Diverso, e per qualche verso opposto, appare il libro di Vladimiro Satta, scritto nel tentativo di chiudere la querelle con la disfatta della dietrologia. La sua minuziosa ricostruzione documentaria in verità fa acqua da tutte le parti. L'autore ha qualche ragione nel criticare vari aspetti della dietrologia, ma quando tira le somme e propone una rilettura dell'intera vicenda, il risultato è desolante e, quel che più conta, arbitrario e "ideologico". Satta non si rende conto che la documentazione finora emersa consente - senza fare alcuna violenza né alla logica né alle carte - una ricostruzione del tutto diversa da quella che vede le Br in una lotta senza quartiere contro lo Stato e questo tutto proteso alla liquidazione del terrorismo. Per le informazioni e la documentazione di cui disponiamo, pare a me quasi certo che settori degli apparati conoscessero la dislocazione territoriale delle Br, compresa la prigione di Moro, durante il sequestro e che, come sostenuto a suo tempo da Giovanni Pellegrino, attorno al "carcere del popolo" si sia svolta un'intensa trattativa.
Nell'ultima "Tela del ragno" di Sergio Flamigni, infine, non vi sono grandi novità rispetto alle precedenti edizioni. Vi è una particolare enfasi (come pure nel film di Martinelli, ispirato da Flamigni) sull'appartenenza di Moretti a Hypérion, cioè a una sorta di "camera di compensazione" nella quale servizi dell'est e dell'ovest si scambiavano favori. Mi pare un argomento valido, ma che spiega solo un aspetto della concreta dinamica del sequestro e dell'omicidio di Moro. Qual è la sua impressione riguardo l'inchiesta di Cucchiarelli pubblicata da Diario? Secondo Cossiga l'Anello non esiste... Su Cossiga vale ancora una vecchia battuta di Beppe Grillo: ci ha raccontato come andava a finire la telenovela Beautiful, ma non come era finito il sequestro Moro. L'articolo di Paolo Cucchiarelli su "Diario" mi ha molto impressionato; si dovranno certamente vedere nel loro insieme le carte dell'inchiesta di Roma e di Brescia. Anzi, essendo l'inchiesta in via di archiviazione per prescrizione dei reati o per morte degli indiziati, sarebbe opportuno che un organismo parlamentare acquisisse quelle carte per studiarle e darne pubblica ragione. Se le dichiarazioni di Ristuccia non sono false o telecomandate, saremmo abbastanza vicini alla verità sul delitto Moro. Semmai è curioso il silenzio della stampa sui verbali resi noti da Cucchiarelli. Anche di recente, per un articolo di "Famiglia cristiana" sulla vicenda di Arconte vi sono state inchieste giornalistiche e programmi televisivi, e in quel caso la documentazione era più incerta e la storia meno significativa. Qui abbiamo invece una fonte che parla, sia pure "de relato", degli aspetti centrali del sequestro e dell'omicidio di Moro. freccia rossa che punta in alto

Clorofilla.it
CASO MORO E "ANELLO": EDITORIALE DI CLOROFILLA

Un "Anello" teneva uniti i partiti della Prima Repubblica, Pci compreso? La morte di Moro, la "sofferenza" di Cossiga, le dimissioni forzate di Guzzanti. Ordinarie manovre sotto i tavoli delle stanze dei bottoni. Clorofilla continuerà a parlarne...nonostante Paolo Mieli - L'editoriale. Quando la notizia non fa notizia - Dc, Pci, Psi. Un Anello ha tenuto per anni agganciate in un misterioso patto di ferro queste sigle. Un superservizio segreto, probabilmente specializzato in omicidi perfetti, realizzati cioè in modo da farli apparire come banali incidenti. Il noto servizio, così pare venisse definito dai beninformati, era formato da speciali spioni alle dipendenze della presidenza del Consiglio. Dicono che operò dal dopoguerra fino alla metà degli anni Ottanta. È l'ultima notizia, che non fa notizia, per decisione insindacabile di Mieli e company. Nonostante più nessuno ormai può mettere in dubbio il ruolo avuto, finora, da poteri occulti come la P2 nella gestione della finanza, della politica, del terrorismo e della criminalità organizzata. Ne sapeva, probabilmente, qualcosa il senatore De Martino quando cedette il partito socialista nella mani di Bettino Craxi o magari anche quei due socialisti, anche loro scomodi, morti in un incidente stradale. E qualcosa potrebbe dirci persino il presunto agente Marte? Mah, a saperlo chi è l'agente Marte. Lo sa forse Cossiga che "soffrì sia nel sequestro Moro che nel suo epilogo". Misteri della fede. Fossimo animisti potremmo almeno sperare nelle rivelazioni di qualche macchina da scrivere abbandonata nelle cantine del quotidiano Il Popolo da dove, stando a quanto qualcuno da qualche nave in mezzo a qualche parte dell'oceano vorrebbe farci credere, sarebbe stato "battuto" il famoso falso comunicato in cui si annunciava l'avvenuta esecuzione di Moro e l'abbandono del corpo nel lago della Duchessa. Misteri d'Italia. È, a dir poco, complicato orientarsi per scindere il grano dal miglio. A meno che non sei navigato ed esperto come Paolo Guzzanti, giornalista al quale l'Avanti chiese improvvisamente le dimissioni per motivi ancora poco chiari. A lui l'ex presidente picconatore sembra abbia confessato: "Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro". Ipotesi di lavoro, dietrologie, fandonie create ad arte per alzare un polverone utile solo a infangare la nostra prima Repubblica con i suoi migliori uomini? Certo è che in qualche stanza delle procure di Brescia e Roma qualche dubbio deve essere venuto, se è vero che stanno ancora lì a rompersi la testa per capire cosa è successo sotto i tavoli dei salotti buoni della politica nazionale. Per ora comunque la verità resta tabù. E lo sarà, verosimilmente, fintanto che quei personaggi e i loro bracci armati continueranno a vivere. E in qualche caso, probabilmente, anche a svolgere funzioni di responsabilità per lo Stato. Vietato, dunque, aprire gli occhi. Vorremmo. Obbedendo si vivrebbe certamente meglio. Ma è più forte di noi. Clorofilla continua a fare doverosamente il suo mestiere. La ricerca quindi continua. A tutto campo su cultura, medicina, ambiente, mafia, Medioriente, terrorismo. Anche se a qualcuno potrà apparire politicamente scorretto. freccia rossa che punta in alto

21 Giugno 2003 (Corriere della Sera)
Nuove Br, ecco la struttura segreta - Nel computer dei terroristi riferimenti a vertici, gruppi locali, militanti con un lavoro ufficiale.

ROMA - Le giustificazioni proposte dal «militante» sono state vagliate a lungo, esaminate in più riunioni, discusse anche in sua presenza. Ma alla fine il verdetto del tribunale interno delle Brigate rosse appare ineluttabile: i comportamenti del compagno finito sotto accusa sono improntati a un «opportunismo individuale» che non può conciliarsi con i precetti dell'«appartenenza rivoluzionaria». A parte l'inaffidabilità mostrata in alcune situazioni, c'è perfino il sospetto che abbia mentito ai propri compagni. Tutto questo «mette in discussione il suo rapporto militante», che dovrà passare da «internità» a «esternità». Tradotto significa espulsione, per sanzionare un atteggiamento che gli stessi brigatisti definiscono senza precedenti. «Nella storia degli ultimi dieci anni dell'organizzazione - ricordano i suoi "giudici" - un comportamento del genere non si era mai verificato, pur in presenza di casi di recesso, di errori, di crisi soggettive e di militanza». Probabilmente il processo al quale le Brigate rosse hanno sottoposto il loro compagno non era ancora concluso la mattina di domenica 2 marzo, quando sul treno Roma-Firenze una pattuglia della polizia ferroviaria intercettò Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce. I due terroristi ingaggiarono un conflitto a fuoco che costò la vita al sovrintendente Emanuele Petri e a Galesi, portò all'arresto della Lioce e alla scoperta di una parte dell'archivio brigatista contenuto nel floppy disk e nel computer palmare sequestrato.
IL PROCESSO - Da quelle memorie elettroniche è saltato fuori il resoconto del «procedimento disciplinare contro X» (nel documento il nome dell'"imputato" è indicato con un'iniziale puntata, come quelli di altri compagni che hanno partecipato alla discussione), completo dei capi d'accusa mossi al militante e della sua autodifesa. Un documento che apre, dall'interno della banda armata, uno squarcio inedito sulla vita segreta e la struttura clandestina delle nuove Br. Una sorta di autoscatto che, per la prima volta dalla sua sanguinosa ricomparsa, offre un'immagine parziale ma autentica del gruppo terroristico più agguerrito e pericoloso. Il 20 maggio 1999, dopo undici anni di silenzio brigatista, gli eredi della lotta armata in Italia hanno ucciso a Roma il professor Massimo D'Antona. Tre anni più tardi, il 19 marzo 2002 a Bologna, hanno assassinato il professor Marco Biagi. Prima e dopo questi due delitti hanno agito nell'ombra compiendo rapine in altre città, rubando soldi, documenti, macchine e motorini per potenziare il «fronte logistico» della rinata organizzazione terroristica. Una formazione che - come si evince dal procedimento contro X - tenta di emulare le Br d'un tempo riproponendo vecchi schemi ma muovendosi in tutt'altro contesto, tra difficoltà economiche, dibattiti ideologici interni, rapporti tra terroristi «regolari», «irregolari» e contatti esterni. Uomini e donne che - clandestini a parte - devono conciliare la loro attività eversiva con la normale esistenza quotidiana della gente comune, divisi tra famiglia e lavoro, costretti a fare i conti col tempo lasciato libero dalla casa e dall'ufficio per poter arrivare in orario agli «appuntamenti strategici», partecipare alle riunioni o alle imprese delle Br. Imprese che oltre gli omicidi contemplano furti e rapine utili a rimpinguare le casse dell'organizzazione, ma anche come esercitazioni per le «azioni di fuoco».
VERTICI E CONTATTI ESTERNI - Il vertice delle nuove Brigate rosse è costituito da ciò che nel documento ora in mano a inquirenti e investigatori è indicato con la sigla «s.c.», che probabilmente significa «struttura centrale»; un organismo che riecheggia il «comitato esecutivo» delle Br degli anni Settanta e Ottanta, all'interno della quale sono sorti, in passato, dei problemi. Tra le accuse rivolte a X c'è il mancato svolgimento dell'inchiesta che gli era stata assegnata su un possibile obiettivo, e nel documento si legge che il compagno «motiva questa scelta con l'incorsa crisi in s.c., e con la priorità di dover leggere i relativi materiale di dibattito». In un'altra parte si accenna al «dibattito che si era prodotto sui rapporti interni a s.c.». Sotto la struttura centrale, ci sono quelle periferiche. In un passo si fa riferimento alla «sede locale» che pure aveva criticato certi comportamenti di X, e allo «scioglimento di una struttura di livello superiore in cui X era inserito». Dentro le Br X aveva raggiunto «un livello di internità elevata, sia nel dibattito che nel programma centralizzato dell'O. (l'organizzazione, ndr )». Ha partecipato in prima persona «all'attività combattente, con assunzione di ruolo prevalentemente nell'attività militare», e - pur mantenendo la vita privata regolare e insospettabile di un non clandestino - era il referente di altri brigatisti «irregolari». Dovendo «formalizzare la sua esternità», cioè sancirne l'espulsione, per le Br nasce il problema della «gestione degli sviluppi di alcuni contatti» che avevano in lui l'«anello di collegamento». L'autore della relazione ipotizza una «consegna di comunicazioni», trasferendo ad altri brigatisti i contatti esterni di X, ma lui è contrario. Consiglia di «mantenere la situazione attuale» e assicura che «non ci saranno problemi di sicurezza perché i soggetti sono addestrati a tecniche preventive rispetto al mantenimento dei contatti». La soluzione temporanea adottata è «di mantenere i contatti in una situazione di sospensione».
INCHIESTE E NUOVI DELITTI - Se da un lato la vita quotidiana dei brigatisti non clandestini costituisce un vantaggio perché ne consente la «mimetizzazione» rendendo più difficile l'individuazione, dall'altro diventa un ostacolo quando «gli impegni personali di convivenza familiare» o i rapporti di lavoro entrano in conflitto con le esigenze dell'organizzazione. Una delle accuse mosse a X è proprio la «subordinazione dell'attività militante a questi impegni», nonostante gli siano stati assegnati compiti «con una logica di calibramento, per cui solitamente non comportavano attività particolarmente impegnative o grosse trasformazioni della propria vita sociale». I fotogrammi interni alle Br che si ricavano dal procedimento disciplinare spaziano dalle attività passate a quelle in corso. Si parla di rapine andate a segno, di altre fallite, e si accenna a nuovi delitti in preparazione. C'è un riferimento al «programma di prolungamento della disarticolazione», sottinteso dello Stato, che nel gergo brigatista vuol dire progettare nuovi «attacchi militari». Cioè omicidi. Nell'ottica di «prolungare» la catena di attentati, a X viene riconosciuto di aver «realizzato autonomamente alcune attività inchiestative con un certo grado di partecipazione», vale a dire raccolta di informazioni su possibili obiettivi. Sul piano teorico si nota che «raramente c'è stata un'attivazione in lavori scritti rivolti a contribuire nel dibattito politico-teorico interno», mentre viene contestato un «impegno minimo nell'attività di ricerca di mezzi e disponibilità all'attività di reperimento». Nel linguaggio involuto e burocratico dei brigatisti - caratteristica che segna una certa continuità con le «vecchie» Br - significa scarsa dedizione ai furti di motorini o auto da utilizzare nelle azioni, compresi gli «espropri» per l'autofinanziamento.
L'EMERGENZA ECONOMICA E LE RAPINE - Ad un primo tentativo di rapina andato a vuoto, il 5 dicembre 2002 nell'ufficio postale di via Tozzetti a Firenze, X ha partecipato «con efficacia e impegno». Quando invece il colpo è riuscito, il 6 febbraio alla sede delle Poste di via Torcicoda, sempre a Firenze, X non c'era. I suoi compagni - armati con pistole e, secondo i testimoni, un mitra che poteva essere un kalashnikov - portarono via un bottino di circa 67.000 euro. Oltre che a fronteggiare le «condizioni di emergenza economica» in cui versava l'organizzazione prima dell'«esproprio» riuscito, le rapine servono alle Br per mettere alla prova «le forze che hanno espresso un superiore livello di responsabilizzazione», militanti sui quali poter «costruire una capacità offensiva superiore». Una sorta di addestramento per azioni più importanti, insomma. Non impegnarsi in queste attività accampando scuse familiari o lavorative (peraltro giudicate «incongruenti»), nella concezione brigatista è inammissibile: «Anche gli operai - si legge nella relazione disciplinare - quando lottano per rivendicazioni sindacali mettono a rischio la propria stabilità economica, perché rischiano sia il salario che il licenziamento... E i compagni che hanno una condizione di regolarità sono di fatto stabilmente in mezzo a una strada, sottoposti a qualsiasi evento negativo, affidano il loro futuro personale a qualunque sviluppo possa avere lo scontro rivoluzionario e non hanno certo contributi pensionistici o assistenza sanitaria... Senza dimenticare i nostri compagni prigionieri, i rivoluzionari caduti e i proletari morti di sfruttamento...».
LE REGOLE DELLA MILITANZA - Nella sua autodifesa X assicura di riconoscersi ancora «nella proposta politica e prassi della lotta armata per il comunismo», ma il tribunale brigatista si mostra inflessibile: i suoi comportamenti «fanno venir meno i presupposti politici fondanti di un rapporto organizzato sul terreno della militanza rivoluzionaria». E se non fossero sanzionati, l'immagine delle Brigate rosse verrebbe ridotta a «un insieme raccogliticcio e unito artificialmente, non vincolato da un patrimonio politico-militare comune, in cui ognuno può adottare liberamente comportamenti e scelte espressione di interessi individuali o particolaristici, contrari agli obiettivi, interessi e concezioni del mondo comuni».
Dopo tante discussioni, X finisce per «condividere la valutazione espressa dall'organizzazione sulle sue scelte». Ma suggerisce una «collocazione intermedia» anziché l'espulsione, poiché «in fondo sarebbe più utile rimanere al livello di fornire un contributo, e anche l'organizzazione potrebbe mantenere il suo appoggio». Per il tribunale del gruppo che ha ucciso D'Antona e Biagi e continua a progettare altri omicidi, però, sarebbe «un approccio ad adattarsi all'esistente, per cercare di avere consensi e il massimo di aggregazione; ma questo può andare bene per le forze borghesi o per l'opportunismo revisionista che non deve cambiare nulla, non per la rivoluzione proletaria e comunista». freccia rossa che punta in alto

23 Giugno 2003 (Corriere della Sera)
Corrado Alunni, uno dei fondatori: i militanti di oggi sembrano disorganizzati e più deboli rispetto a noi

ROMA - «Sul piano giudiziario mi hanno addebitato decine e decine di rapine in banca. Non ricordo più precisamente quante. In quelle operazioni non ho mai cercato lo scontro a fuoco e, per fortuna, non mi è mai capitato di sparare un solo colpo. All'inizio degli anni Settanta nessuno di noi, intendo dire nessun militante delle organizzazioni armate, aveva alcuna esperienza di rapinatore. Abbiamo cominciato a fare le rapine perché non intendevamo farci finanziare da alcuna realtà esterna». Così scrive Corrado Alunni, brigatista rosso della prima ora, passato alle Formazioni comuniste combattenti e arrestato nel 1978, nel suo contributo a La rapina in banca - Storia, teoria, pratica , libro a più voci edito da DeriveApprodi. Trent'anni dopo l'esperienza narrata da Alunni, la situazione non sembra cambiata granché. Le nuove Brigate rosse che hanno ucciso Massimo D'Antona e Marco Biagi devono ricorrere alle rapine per autofinanziarsi e non mostrano grande esperienza nel settore: ne hanno fallite più d'una e sono giunte a considerarle «azioni vitali» per la sopravvivenza della banda armata. Come emerge da un documento trovato ai neobrigatisti Nadia Lioce e Mario Galesi, uno dei capi d'accusa contro un militante «processato» e arrivato sulla soglia dell'espulsione dalle Br è proprio di aver mandato all'aria un «esproprio» programmato «dopo vari insuccessi» delle Br. La storia si ripete, dunque. «Ma ai tempi nostri non è mai accaduto di arrivare a sanzionare il comportamento di un compagno per motivi di questo genere - dice Alunni -. Anche perché in quell'epoca fare una rapina era molto più semplice. Chiunque, in certe condizioni e con precise motivazioni, era in grado di portarla a termine. Oggi invece si va incontro a maggiori difficoltà, a situazioni e rischi più pesanti». Le differenze, spiega l'ex-brigatista che oggi - da libero dopo 17 anni di carcere - lavora in una società di programmazione e consulenza informatica, riguardano soprattutto il mondo in cui si è costretti a operare: «Con le nuove tecnologie e le carte di credito, nelle banche si possono trovare pochi soldi in contanti. E per assaltare un portavalori scortato, come fecero le Br nel 1987, bisogna mettere in piedi un'operazione militare pari a quella organizzata in via Fani per rapire Aldo Moro. Perfino nei supermercati, grazie ai nuovi sistemi di pagamento, non ci sono tanti liquidi. Restano gli uffici postali, dove si racimola poco. Inoltre le città sono più controllate e militarizzate, con telecamere dappertutto e molta polizia in giro». Rispetto a chi lo fa per «mestiere», i terroristi che devono finanziare l'attività clandestina hanno in più il problema di non farsi scoprire e di non «cadere» durante una rapina. «Il "rivoluzionario" - spiega Alunni - non è un criminale comune che va in guerra per guadagnare soldi, i colpi nelle banche o negli uffici pubblici sono dei passaggi intermedi che nemmeno si rivendicano. Per questo è importante non lasciarci le penne e, dunque, ci voleva e ci vuole una copertura di fuoco notevole per evitare il peggio». Allora come oggi (risulta proprio dal documento trovato a Lioce e Galesi), per i brigatisti la rapina è anche un modo per addestrare i militanti alle operazioni militari. Dice ancora Alunni: «Erano occasioni per "provare" i compagni e far fare loro un po' di esperienza. Ricordo che una volta andammo in due e io mi sentivo poco tranquillo proprio perché il compagno che doveva farmi la copertura era al suo primo esproprio». Quella prova andò bene, ne seguirono altre e poi passò alle azioni da rivendicare. Quando negli anni Settanta l'organizzazione è cresciuta e ne ha avuto le potenzialità (nel 1977 con l'armatore Costa) è passata ai sequestri di persona per non dover più assaltare le banche. Oggi - secondo l'analisi degli investigatori, che però sono sempre molto cauti su quello che può succedere - le rinate Br non sembrano in grado di compiere un simile salto di qualità. Sono arrivati a pianificare rapine agli uffici postali di Firenze (almeno due tentativi andati a vuoto prima del bottino di 67.000 euro raccolto nel febbraio scorso) utilizzando motorini comprati a Roma e trasportati fino in Toscana. Segno di un «fronte logistico» debole, al contrario di un tempo: «Chiunque di noi era in grado di rubare un'auto - ricorda Alunni - e quasi ovunque c'erano militanti pronti ad aiutare l'organizzazione. Per un'azione a Firenze ai mezzi pensavano i militanti fiorentini, con meno rischi per tutti». Se non sa dire il numero degli «espropri» a cui ha partecipato, Corrado Alunni rammenta invece che solo in due o tre occasioni ha avuto qualche problema: «Accadde quando eravamo in pochi o quando l'azione durò troppo tempo rispetto ai livelli di sicurezza». Nessuna difficoltà, invece, coi documenti falsi: «Procurarseli attraverso la criminalità comune era troppo rischioso, meglio farseli da soli. Avevamo acquisito i nostri mezzi e col tempo siamo migliorati sempre più. Ma mi rendo conto che anche su questo terreno oggi è tutto più complicato». Sul treno Roma-Firenze, la mattina del 2 marzo scorso, negli uomini della polizia ferroviaria imbattutisi casualmente in Mario Galesi e Nadia Lioce il sospetto è nato proprio dalle carte d'identità che avevano le foto attaccate con una banale spillatrice, senza timbro a secco. Mentre i poliziotti stavano approfondendo i controlli, i due terroristi hanno ingaggiato la sparatoria in cui sono morti Galesi e il sovrintendente Petri. «Io, da ricercato, sono stato controllato diverse volte - racconta Alunni - e i documenti falsi hanno sempre retto. Una volta, fermato dalla Finanza a bordo di una 500, tirai fuori il libretto di circolazione che ci eravamo dimenticati di riempire, ma quando lo vide in bianco l'unica reazione del finanziere fu quella di raccomandarmi di andare subito alla Motorizzazione per farlo compilare. Altri tempi...». Altri tempi anche per la lotta armata. «Dal punto di vista soggettivo - dice Alunni - è un'opzione che evidentemente ha ancora qualche seguace, ma dal punto di vista oggettivo mi sembra improponibile. Noi all'epoca vedevamo la possibilità di destabilizzare il potere e innescare la rivoluzione: un'idea discutibile allora, che oggi appare del tutto inverosimile». Forse anche per questo le nuove Br si trovano a fare i conti con qualche «abbandono», come pure risulta dal documento di Lioce e Galesi, oltre alle espulsioni. «Abbandoni ci sono stati anche da noi - ricorda l'ex-brigatista - senza conseguenze. Poi c'erano i problemi pratici imposti dalla clandestinità, che non rende certo la vita comoda e che probabilmente sono gli stessi di oggi. E, se l'organizzazione non è in grado di trovare soluzioni, l'unico modo per andare avanti è sublimare tutto attraverso l'ideologia». freccia rossa che punta in alto

24 giugno 2003 - CASO MORO: INTERVISTA PELLEGRINO A CLOROFILLA

- "Moro è mistero politico di portata internazionale, non criminale. Ma fino a quando la Procura di Roma continuerà nel suo singolare atteggiamento di self-restrain, la verità non verrà mai a galla". Secondo Giovanni Pellegrino "la rivelazione sull'esistenza dell'organizzazione Anello è un'ipotesi di lavoro molto seria". Su Andreotti? "Penso che non abbia potuto volere la morte del presidente della Dc". In merito alle "trattative", l'ex senatore rivela infine una personale convinzione maturata in Commissione Stragi: "Può anche darsi che abbia prevalso un'altra linea. Non per la liberazione dello statista, bensì per la sua esecuzione" - Roma - Smontare la retorica ed i luoghi comuni del dibattito politico italiano. Sembra questo l'intento di Giovanni Pellegrino, ex presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi nella dodicesima e tredicesima legislatura . La Commissione stragi? Un mero esercizio culturale. Andreotti? Un marpione che sperava nell'intervento del Vaticano per la liberazione di Aldo Moro. Cossiga? Un uomo distrutto dall'epilogo di quei 55 giorni, tradito da qualcuno rimasto nell'ombra. Le Br? Un pezzo di una società che con i brigatisti aveva ampi luoghi d'interlocuzione. Ma soprattutto la politica, con i suoi aspetti nascosti e le relazioni pericolose con la lotta armata. È in questo quadro che, secondo l'ex senatore, è nascosta la verità sulla morte di Aldo Moro, al di là di sterili polemiche che sembrano dividere storici e giornalisti. Ecco il senso dell'intervista che muove dall'attività svolta dalla Commissione presieduta per sette anni dall'avvocato pugliese. Vladimiro Satta ha accusato la Commissione da lei presieduta di non aver approfondito l'entità della figura del personaggio alto borghese che nell'estate del 1978 mise a disposizione un appartamento a Roma nel quale il latitante Moretti potesse incontrarsi con Piperno. Cosa risponde? Mi sorprende che questa critica mi venga da un funzionario del Senato che dovrebbe conoscere il regolamento delle Commissione d'inchiesta. Piperno era ascoltato in libera audizione, non come testimone e senza giuramento. Non potevo quindi imporgli di dire più di ciò che aveva liberamente ritenuto farci udire. Questo atteggiamento lo ebbi con tutti coloro che in sette anni la commissione ha ascoltato in mia presenza. Allo stesso modo da Maccari non pretesi che ci dicesse chi erano i personaggi di rango elevato che nella Roma nella seconda metà degli anni Settanta facevano a gara per avere a cena il capo delle Br. Aggiungo che sugli ambiti di contiguità a cui le Br si sono giovate ho puntato il dito come nessuno aveva mai fatto , sfatando la leggenda di un gruppo guerrigliero strutturato come un tubo d'acciaio e quindi senza contatti e legami con il resto della società italiana del periodo. Fare ulteriore luce su questi ambiti non poteva essere compito di una commissione che, come Satta dovrebbe ricordare, malgrado l'impegno di pochi dei suoi membri si riuniva a tarda sera e quasi mai in numero legale e quindi in una condizione in cui l'assunzione dei poteri dell'autorità giudiziaria, pur astrattamente possibile, non era in concreto praticabile. Ciò ha impedito alla nostra Commissione di funzionare come un vero organismo parlamentare. Alla luce di questi elementi sono molto fiero dei risultati raggiunti. Ho vissuto l'esperienza alla Commissione stragi come una splendida avventura culturale. Mi divertivo a cercare di capire gli angoli bui della nostra storia. Su questi presupposti tutto ciò che acquisivamo in indagine sostanzialmente conoscitiva, soprattutto sul caso Moro, lo trasferivamo alla Procura di Roma, con la speranza di dare impulso ad accertamenti, di cui non si è saputo più nulla. Dopo Markevich, un altro personaggio legato al sequestro Moro e riconducibile al Kgb è avvolto dal mistero: si tratta di Sokolov. Secondo alcuni l'ex studente russo di Aldo Moro rimase in Italia per tutta la durata del sequestro, per altri tornò a Mosca durante la prigionia del leader Dc. Lei cosa ne sa? Sono sempre più convinto che trattative vi siano state per condurre alla salvezza Aldo Moro, poste in essere in modo separato da soggetti diversi in qualche modo tra loro concorrenziali e delle quali almeno una giunse sino alla soglia del successo. È Moro a dircelo in quelle che a torto sono state considerate le ultime pagine del suo memoriale e che sono invece delle pagine a sè stanti che Moro redige negli ultimi giorni della sua vita, probabilmente tra il 5 e l'8 maggio quando aveva raggiunto la certezza della propria salvezza. Di questo sono sicuro; mentre ritengo probabile, e cioè fortemente verosimile, che Igor Markevich abbia potuto avere un ruolo in questa trattativa. Perché la trattativa fallì? Su questo non posso che formulare ipotesi. Può anche darsi che trattative diverse si siano intrecciate ed ostacolate a vicenda. Può anche darsi che abbia prevalso un'altra trattativa i cui contenuti non faceva parte la salvezza di Moro, ma la sua uccisione. Più semplicemente può ritenersi che Andreotti abbia col suo solito tono dimesso raccontato la verità o gran parte della verità. Nella trattativa faceva parte non solo il pagamento del riscatto monetario che il Vaticano aveva preparato e la posizione di dissenso dalla linea di fermezza che Fanfani aveva promesso di assumere pubblicamente nella mattina del 9 maggio, ma anche la concessione della grazia a Paola Besuschio da parte del capo dello Stato, cui Moro si era direttamente rivolto con la lettera del 4 maggio. Come più volte Andreotti ha rilevato, Besuschio, pur graziata, non sarebbe tornata in libertà perché detenuta per altra causa e per un giudizio non ancora concluso (la ragazza, dopo aver militato nel gruppo extraparlamentare Potere Operaio, si è iscritta alla Facoltà di sociologia di Trento, dove ha conosciuto Renato Curcio e Mara Cagol. Quando, il 30 settembre del 1975, la arrestano ad Altopascio, in Toscana, è da un anno militante delle Brigate Rosse. La giovane donna deve scontare 15 anni di carcere. Le si imputa di avere partecipato a varie rapine e preso in affitto i vari covi per i terroristi. È indiziata di reato per il ferimento del consigliere democristiano Massimo De Carolis, ndr). Il venire a gallo di questo elemento, prima di allora trascurato, e la necessità che nella trattativa venisse coinvolto l'ordine giudiziario che avrebbe dovuto concedere la libertà provvisoria alla Berluschio potrebbe aver complicato le cose facendole precipitare verso il tragico epilogo. Per ciò che concerne Sokolov so poco, perché il suo nome appare nel dossier Mitrokhin su cui altra commissione d'inchiesta sta indagando. Le notizie che ho non sono sufficienti a far concludere che le Br abbiano rapito Moro per mandarlo al Kgb, ma sono certo che una volta rapito Moro, anche il Kgb si sia attivato perché enormemente interessato a conoscere i segreti sensibili che Moro avrebbe potuto rivelare alle Brigate Rosse. Se Sokolov era, come sembra un agente del Kgb, ha senso ritenere che ha avuto una parte in tutto questo. Chi furono gli attori principali delle trattative? Sicuramente si è attivata la famiglia, così come il Vaticano. In una fase iniziale si sono attivati anche gli apparati. Il generale Dalla Chiesa si è attivato, perfino la mafia ha allacciato trattative, così come la 'ndrangheta. Sicuramente, infine, i maggiori servizi segreti hanno avviato trattative con le Br. Ed il Pci? Assolutamente no. Come partito il Pci non prese mai alcuna iniziativa. Non ne aveva l'interesse politico. Quello a cui puntava il partito comunista era di accreditarsi come partito della fermezza, liberando il campo da ogni tipo di equivoco circa presunte simpatie verso la lotta armata. All'interno del Pci, da quello che ne so, le uniche voci di dissenso furono quelle di Barca, Bufalini e di Ingrao. Francesco Biscione afferma che con l'inchiesta di Paolo Cucchiarelli e la rivelazione dell'esistenza dell'Anello (struttura dei servizi segreti, clandestina, alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio. Tra le operazioni più importanti a suo carico il rapimento Cirillo, la fuga di Kappler e la scoperta del covo dove era tenuto Moro, ndr) la ricostruzione di quel periodo italiano è pressoché completa e che nello specifico siamo vicini alla verità sulla vicenda del rapimento del leader democristiano. Lei cosa ne pensa? Penso che Biscione abbia ragione. Quella di Cucchiarelli è una ipotesi molto seria, ma penso anche che alla verità a breve non arriveremo se la Procura di Roma continuerà in un atteggiamento di singolare self-restrain, di autocontenimento su tutto ciò che riguarda gli aspetti politici e non strettamente criminali della vicenda, il che a mio avviso è sbagliato perché solo facendo chiarezza sull'affaire, che fu anche internazionale, si farà ulteriore chiarezza sul delitto. Secondo Rino Formica, la verità su Moro è in una lettera a Taviani scritta durante la prigionia e nella quale lo statista democristiano definisce lo stesso Taviani come il garante di un equilibrio politico internazionale. È dello stesso avviso? Formica è un uomo intelligente, ma questa volta la sua intelligenza l'ha portato a dire, come quasi mai gli accade, una banalità. Non vi è dubbio che le cose siano nei termini espressi da Formica, ma questo in tanti lo abbiamo capito da tempo. Per questo anche oggi ho parlato di affaire internazionale in cui avevano centralità le carte Moro il cui ritrovamento fu definito dallo stesso Dalla Chiesa l'obiettivo che dopo la morte di Moro tutti si erano prefissi. Smentendo la tesi ufficiale data dal governo durante i 55 giorni del sequestro, Cossiga ha definito Moro l'uomo politico italiano con la maggiore conoscenza di segreti sensibili. In virtù di queste caratteristiche, il rapimento Moro divenne ben presto un caso internazionale, dove ognuno giocò la sua partita nell'interesse nazionale. Ritiene credibile, alla luce delle rivelazioni contenute nell'inchiesta di Cucchiarelli, che Andreotti abbia potuto affermare: "Moro vivo non ci serve"? No, conoscendo Andreotti penso sia vero ciò che ha detto Cossiga secondo il quale la liberazione di Moro non fosse compito di quel governo ma sperava che l'iniziativa autonoma del Vaticano potesse portare alla liberazione di Moro. A differenza di Andreotti, Cossiga, invece, credeva che la liberazione del presidente Dc passasse attraverso la mediazione e l'azione degli apparati, coperti e scoperti. L'allora ministro dell'Interno, però, sapeva anche che di quegli apparati non si poteva fidare ciecamente. freccia rossa che punta in alto

24 Giugno 2003 (Corriere della Sera)
Terrorismo, due italiani arrestati a Parigi
La Procura di Napoli: 12 indagati per associazione clandestina. In cella il fondatore dei Carc

NAPOLI - Una dozzina di indagati, oltre venti perquisizioni tra Parigi, Napoli e altre città italiane e svizzere. Tre arresti. Uno scenario che vede coinvolti protagonisti degli anni di piombo e rappresentanti di schieramenti nati recentemente ma già al centro di inchieste sull'eversione. Porta la firma di due sostituti procuratori napoletani (i pm Stefania Gastaldi e Barbara Sargenti) l'inchiesta che ipotizza la nascita, nel febbraio 2001, di una organizzazione denominata Cp, «Commissione preparatoria del congresso di fondazione del nuovo partito comunista italiano», che secondo gli investigatori era in rapporti «di interlocuzione con appartenenti all'associazione eversiva denominata Cellula per la costituzione del partito comunista combattente». Un linguaggio piuttosto contorto per dire che tra Italia e Francia ci sarebbe un gruppo di persone, non necessariamente collegate alle Brigate rosse, che si sta organizzando per ridare consistenza al partito armato. Per ora a nessuno vengono contestati specifici episodi di terrorismo, ma per tutti gli indagati è ipotizzato il reato di associazione clendestina. Un'inchiesta partita due anni fa, dopo il ritrovamento a Napoli di un documento firmato dalla «Cellula per la costituzione del partito comunista combattente» e che per certi versi può essere considerata una sorta di prosecuzione dell'indagine sui Carc (i «comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo») condotta negli anni scorsi dalla Procura di Roma e archiviata nel gennaio 2002 perché gli elementi raccolti non furono ritenuti dagli stessi magistrati del pool antiterrorismo sufficienti a contestare i reati di associazione sovversiva ed eversiva. I Carc sono ora al centro dell'inchiesta napoletana, che i pm Gastaldi e Sargenti e il procuratore aggiunto Franco Roberti, che ha coordinato il lavoro dei due sostituti, hanno affidato al Ros dei carabinieri. E sicuramente il personaggio di maggior spicco, tra quelli coinvolti dei quali sono trapelati i nomi, è Giuseppe Maj, leader e fondatore dei Carc, già coinvolto in numerose altre inchieste e irreperibile dal 1999. Finché, nei giorni scorsi, è stato ritracciato a Parigi. E ieri per lui è stata una giornata veramente particolare. Si è trovato contemporaneamente indagato dalla Procura di Napoli, perquisito da quella di Bologna e arrestato da quella francese. Andiamo con ordine. I magistrati napoletani ritengono che Maj faccia parte della Commissione sulla quale stanno indagando. Al leader dei Carc è però interessato anche il pm bolognese Paolo Giovagnoli, che conduce l'inchiesta sull'omicidio del professor Marco Biagi e ha fatto perquisire l'abitazione di Maj alla ricerca di eventuali elementi utili alla sua indagine. Durante la perquisizione, però, gli uomini della gendarmeria parigina, che hanno eseguito il provvedimento chiesto da Giovagnoli, hanno trovato documenti falsi. E il procuratore antiterrorismo francese, Jean Louis Bruguiere, ha disposto immediatamente il fermo dell'italiano, contestandogli non solo i documenti contraffatti, ma anche l'associazione eversiva. Stesso provvedimento contro altri due degli indagati dell'inchiesta di Napoli: il milanese Giuseppe Czeppel e la francese Catherine Bastard. A Parigi sono state poi perquisite, tra le altre, le abitazioni dell'ex terrorista napoletano Guido Cuccolo, e di Marina Petrella, ex appartenente alla colonna romana delle Brigate rosse e condannata per banda armata nel 1983. Cuccolo e la Petrella fanno parte di quel lungo elenco di ex militanti di formazioni eversive che hanno trovato rifugio in Francia. Tra questi c'era anche Paolo Persichetti, estradato nell'agosto del 2002 in Italia, dove deve rispondere dell'omicidio del generale Giorgieri. È in questo ambito, se sarà confermata l'ipotesi investigativa dei giudici napoletani, che starebbe prendendo forma una nuova organizzazione che mirerebbe ad «atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico». Un'organizzazione che avrebbe però già ampie ramificazioni italiane. Ieri mattina i Ros sono entrati in azione a Napoli, Milano, Modena e Campobasso, mentre altre perquisizioni sono state eseguite per rogatoria in Svizzera. A Napoli gli indagati sarebbero tre: un ex esponente di Prima linea e due dirigenti dei Carc, che però si difendono sostenendo di aver soltanto messo in rete, sul loro sito, documenti inviati per posta elettronica dalla cosiddetta Cp. freccia rossa che punta in alto

25 Giugno 2003 (Corriere della Sera)
Il partito clandestino teorizzato da Maj. Sospetti su legami con Grapo e Raf

ROMA - Avrebbero preferito continuare a seguire Giuseppe Maj e i suoi contatti «francesi», gli investigatori d'Oltralpe, convinti come sono che dalla sua «rete» avrebbero potuto cavare qualcosa di più che qualche documento falso. Magari rapporti con qualche superstite della Raf tedesca, o con gli spagnoli del Grapo; proprio a Parigi, nel luglio dell'anno scorso, furono arrestati otto militanti del «Gruppo antifascista primo ottobre» al quale vengono attribuiti otto omicidi. I tempi dell'inchiesta della magistratura napoletana, però, hanno fatto scattare le perquisizioni e acceso i riflettori su un'indagine che ha tutta l'aria di una ricognizione sul presunto «bacino d'utenza» delle nuove Brigate rosse. Un'indagine che ricorda le vecchie investigazioni degli anni Settanta sull'Autonomia operaia che brulicava ai margini dei gruppi «combattenti», Br comprese. Alla ricerca - oggi più di allora, visto il deficit di conoscenze sui nuovi terroristi - di elementi che possano avvicinare gli investigatori agli assassini di Massimo D'Antona e Marco Biagi. Il procuratore di Bologna spiega di aver mandato la polizia a casa del sessantaquattrenne e clandestino volontario Giuseppe Maj, ipotizzando suoi «contatti» coi neo-brigatisti. Ipotesi da non escludere a priori, visto quello che il leader dei vecchi Carc (Comitati di appoggio alla resistenza) e del «(Nuovo) partito comunista italiano» - che nelle intenzioni dev'essere clandestino e può diventare anche «combattente» -, scrive dalla ricomparsa della sigla con la stella a cinque punte. Ma una cosa è immaginare chi possano essere i brigatisti degli anni Duemila, o addirittura conoscerli e «dialogare» con loro attraverso comunicati e volantini, un'altra è sapere dove sono, che cosa fanno, come sono organizzati, avere «rapporti operativi» con loro. Non a caso i magistrati sembrano procedere con maggiore cautela dei loro colleghi di venti o venticinque anni fa. A Bologna Maj non è nemmeno inquisito, a Napoli gli contestano un'associazione eversiva dai confini ancora incerti (ed è solo iscritto nel registro degli indagati). Stando alle tante parole scritte, Maj e i suoi seguaci sembrano più vicini a quella che negli anni Ottanta si qualificò come «seconda posizione» all'interno delle Br, nel rifiuto della «strategia» della lotta armata slegata dal «consenso» e da movimenti. Posizioni che gli esperti dell'Antiterrorismo ritrovano oggi più nei volantini del Fronte rivoluzionario - che ha rivendicato alcuni micro-attentati contro la Cisl, la Fiat e un assessore della Regione Lombardia -, piuttosto critico nei confronti della linea brigatista. Più o meno come Maj che nel 1999, all'indomani del delitto D'Antona, scriveva a un compagno: «Un'organizzazione come le Br-pcc non può andare oltre qualche attentato che un qualsiasi gruppo, anche piccolo e senza prospettive, anche una sola persona, può fare in ogni momento». Piuttosto, l'inossidabile rivoluzionario era attratto dai potenziali acquirenti di magliette stampate con la sigla brigatista: «Possono essere tipi interessanti, da avvicinare (con le dovute cautele). Tra le masse la simpatia per le Br è un buon segno per noi. Dobbiamo raccoglierlo». Tre anni più tardi, dopo l'omicidio Biagi del marzo 2002, le pubblicazioni del «(nuovo) Pci» notavano come il comunicato brigatista contenesse «alcuni importanti passi in avanti rispetto a quelli del '99», che se «mantenuti fermamente e sviluppati coerentemente, sono un segnale positivo per la ricostruzione di un vero partito comunista», alla quale «devono lavorare da subito le esigue avanguardie attuali». Questo stava probabilmente pensando di fare, a Parigi, Giuseppe Maj, forse in contatto con altri gruppi sovversivi stranieri. La speranza degli investigatori è che attraverso qualche maglia della sua «rete» si possa afferrare un filo per risalire ai brigatisti che hanno ucciso e vogliono uccidere ancora. freccia rossa che punta in alto

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